«Gli adulti non capiscono mai niente da soli e i bambini si stufano di spiegargli tutto ogni volta». Inizia con questa celebre citazione del Piccolo Principe il nuovo film di Walter Veltroni, ex sindaco di Roma, che dopo il suo esordio cinematografico con “Quando c’era Berlinguer” oggi ritorna sul grande schermo con “I bambini sanno”.
L’intento di Veltroni è quello di restituirci una visione della realtà utilizzando il racconto di trentanove bambini intervistati nelle loro stanzette, tra giocattoli e videogiochi. Dai 9 ai 13 anni, dal Veneto sino a Lampedusa i bambini rispondono alle domande dello stesso regista (di cui sentiamo solo la voce) affrontando quattro grandi argomenti: amore, famiglia, Dio, omosessualità e crisi. Ogni capitolo è introdotto da una vignetta del disegnatore Altan. Ne esce fuori un documentario che a tratti ci intenerisce – come la storia del bambino guarito dalla leucemia che è costretto a cambiare scuola perché non compreso dai compagni e dalla maestra – ma dall’altro lato ci insinua dubbi sulla veridicità e spontaneità di questi bambini davanti alla telecamera e a delle domande pressanti del regista. Poche incertezze nel rispondere e nelle posizioni da prendere.
Quello di dar voce ai più piccoli su temi controversi dell’attualità è un campo arato già da tempo in Italia. Le trasmissioni di Giovanni Floris (prima Ballarò poi DiMartedì) a inizio puntata ospitano da qualche anno un servizio in cui bambini rispondono a domande di politica, società e costume. Anche sul web tra i video più cliccati troviamo queste baby-interviste come “Amore Gay” dei The Jackal e “Dalle uno schiaffo: le reazioni dei bambini” realizzato dal giornalista Luca Iavarone insieme a tanti altri. Chi li ha realizzati ci può confermare come sia facile manipolare con “taglio e cucito” le risposte dei bambini orientandole in una precisa direzione. Qui non dubitiamo dell’onestà intellettuale di Veltroni ma possiamo dedurre che sul tema di Dio o dell’omosessualità il regista abbia rispettato un certo regime di par condicio (già per questo motivo ha fatto selezione).
Artefatto o meno ci domandiamo, però, se chi ha costruito questo documentario abbia considerato i bambini solamente come “oracoli” da consultare per avere risposte dirette su grandi temi: c’è un vissuto del bambino, c’è un contesto in cui è cresciuto, ci sono dei genitori che lo hanno educato alla vita, elementi assenti nel racconto che, quando compaiono, sono diretti ad inquadrare la condizione di fragilità della famiglia. Il regista punta alle emozioni toccando le corde dolorose della loro vita (l’adozione, la perdita paterna, la convivenza con una malattia) ma, ancora una volta, l’unico obiettivo sembra quello di intenerirci.
Nel suo corpo centrale è un film lento scandito da un’ora e mezza di primi piani intervallati, talvolta, da alcuni luoghi che gli stessi bambini citano nei loro racconti. Tra i momenti più belli del film c’è l’omaggio stile “Tornatore” che Veltroni fa a tutte le più celebri corse di bambini nel cinema, da Billy Elliot al piccolo Ciccio di Baaria.