Mentre tutta Europa si chiede se la Grecia riuscirà a restare in Europa, pur attenuando le politiche di austerity che tanto hanno contribuito ad aumentare la povertà, ci si chiede che cosa pensino dell’Unione i giovani, i cosiddetti millennials, cioè coloro che hanno compiuto 18 dopo il 2000 e che quindi in Europa sono nati. L’amano o no? Si sentono cittadini italiani o cittadini europei?
Risponde a queste domande il Rapporto giovani 2014, “La condizione giovanile in Italia”, curato dall’Istituto Giuseppe Toniolo (ed. Il Mulino 2014). C’è infatti un capitolo dedicato a “I giovani e l’Europa”, curato da Fabio Introini e Cristina Pasqualini.
I millennials, secondo gli autori, sono caratterizzati da una forte euro-mobilità: il loro raggio d’azione si è ampliato, considerano l’Europa un’estensione dell’Italia, che offre migliori opportunità per crescere. Ma restano ancorati al loro Paese: «come le api sono informati, sanno quello che vogliono, sanno scegliere le occasioni migliori, partono, si formano, fanno esprienza ma, appena possono, ritornano nel loro Paese per mettere a frutto quanto imparato».
L’apertura all’Europa convive infatti con un forte radicamento nei luoghi di origine. Se si chiede loro: “a chi appartieni?”, il 48% indica la regione italiana di appartenenza, il 41% l’Italia e solo il 10,5% l’Unione europea. L’amore per la propria terra è maggiore tra le donne e cresce con l’età, probabilmente perché dopo i 25 si cominciano a fare – o a pensare di fare – scelte importanti e a lungo termine.
Probabilmente è legato al forte radicamento territoriale il fatto che i giovani si sentono cittadini italiani (85%) più che cittadini europei e – questa può essere una sorpresa – sono orgogliosi di esserlo: l’83% dichiara di esserlo molto o abbastanza. Per essere veri cittadini italiani, secondo i millennials, occorre prima di tutto rispettare le istituzioni e le leggi (62%) e solo in seconda battuta saper parlare italiano, condizione indicata solo dal 51% dei giovani. Un dato, questo, che indica una concezione “aperta” della cittadinanza, e infatti solo una minoranza (39%) indica come condizione l’essere nati in Italia, o viverci da molto tempo (32%), meno ancora conta l’avere antenati italiani (11%).
Sono meno numerosi (il 70%) quelli che dicono di sentirsi molto o abbastanza cittadini europei e non è caso che questa percezione sia più diffusa tra i giovani che hanno titoli di studio alti, che significa Erasmus, vacanze all’estero, inglese parlato scioltamente. La classifica dei Paesi che avvertono come più “vicini” è un po’ scontata, perché privilegia quelli mediterranei: la Spagna (56%) e la Francia (43%), poi vengono il Regno Unito (39%) e la Germania (35%), anche se quest’ultimo il Paese europeo in cui vive e lavora il maggior numero di Italiani.
Comunque, la maggior parte dei giovani (62%) considera l’Europa un’opportunità, perché offre occasioni di formazione e di lavoro; solo il 26,5% la considera un vincolo, perché impone regole che svantaggiano il nostro Paese. Questo nonostante siano convinti che le istituzioni europee facciano fatica ad affrontare le sfide del presente. I giovani sono infatti critici e “vedono un’Europa” che ha favorito la libera circolazione delle merci, ma anche l’immigrazione senza controllo, l’aumento dei prezzi, la perdita di potere dei Paesi più piccoli, l’impovermento delle identità nazionali, mentre ha portato pochi risultati sul piano dell’incremento della qualità della vita, della difesa dei diritti umani e della democrazia, dell’occupazione.
Nonostante queste criticità, il 57% dei millennials vedrebbe di buon occhio la creazione degli Stati Uniti d’Europa, quindi la costruzione di un’Unione più integrata e più forte. Solo che la pensano un po’ come una fortezza: una realtà con una forza militare comune, una politica estera e una politica sociale comuni, flussi migratori fortemente regolati. E poco aperta all’ingresso di altri Paesi.
Insomma, anche i più critici non rimettono in discussione l’esistenza dell’Europa, semmai vorrebbero più Europa, tale da essere in grado di progettare e realizzare «politiche orientate al raggiungimento della loro autonomia, che passa necessariamente dal lavoro», conclude il rapporto. Il che significa anche più welfare e più politiche sociali. Grecia docet, insomma.