«La mia non è una protesta, l’ho detto anche oggi ad una signora che mi ha salutato sull’autobus dicendomi: “Lei è quello della protesta all’ingresso del sottopassaggio!”. La mia è piuttosto una missione».
Tiene molto a questa precisazione Luigi Miggiani, da molti conosciuto come “il clochard con la cravatta”. La sua testimonianza ruota interamente attorno a questa convinzione, quella cioè di vivere per strada per assolvere ad un compito preciso, ovvero urlare al mondo che «nessun essere umano deve essere lasciato morire, in stato di totale abbandono e in balia di se stesso». Non è invadente, la sua missione. Passa quasi tutta la giornata all’ingresso del sottopassaggio di via delle Fornaci, seduto a scrivere: accanto a lui, alcuni cartelli che urlano silenziosamente la sua storia e la sua esperienza di esclusione sociale.
All’inizio del nostro incontro, Luigi è sereno. Giacca viola a quadri e cravatta gialla, si siede sul divano, nella sala-lettura della comunità religiosa dove c’incontriamo e, quando vede microfono e registratore, scherza subito: «Giuro di dire la verità, tutta la verità!»
Declina il nostro invito a passare al “tu”, definendosi un uomo d’altri tempi, che preferisce rispettare le formalità. Quando gli chiediamo quali sono le difficoltà maggiori nella scelta di vivere in strada, va dritto al punto, senza tergiversare: «Intanto vorrei smentire questa cosa che si diventa clochard per scelta. Non è affatto una scelta, semmai lo stadio finale di un processo di abbandono, da parte della società, che spinge una persona fino alle estreme conseguenze. Per i senza fissa dimora come me – continua – non si può usare il verbo vivere. Io userei piuttosto il verbo morire. È un vivere quotidianamente la morte, che quando arriva è spesso una liberazione, se non fosse per il dispiacere di essere un semplice trafiletto su questo o quel giornale. Sì, perché di un clochard che muore non importa a nessuno, eppure parliamo di uomini e donne. A volte si fa più rumore per gli animali abbandonati. E lo dico io che sono vegetariano da tempo, per l’enorme
rispetto che ho per gli animali».
Ex operaio, poi progettista e direttore di stabilimento, quindi titolare d’azienda e poi consulente, sempre perseguitato dalla sfortuna. Ma guai a parlargli così: «A 24 anni ero pronto a partire per la Russia, per seguire un progetto che io stesso avevo ideato. Ero sposato da 3 anni e avevo già un figlio di 2. Tutto sembrava andare per il meglio, fino a quando feci una richiesta all’azienda a nome degli altri operai. Venni messo di fronte ad un bivio: o con i capi o con i colleghi. Ovviamente scelsi i colleghi e questo fu l’inizio di una serie di disgrazie inenarrabili».
Licenziato, poi sottoposto a mobbing, Luigi non si perde d’animo e si mette in proprio. Anche lì le cose vanno male una prima volta per delle commesse non pagate, così Luigi ci riprova, stavolta da solo e con i mezzi che ha: «Ho messo su un’azienda da zero e con zero lire. Pian piano mi sono ricostruito un nome e sono arrivato persino ad esporre a Torino Esposizioni, io, un umile
progettista armato solo di talento e tanta buona volontà, accanto a mostri sacri del settore come Lancia, Fiat e Alfa Romeo. Eppure – sorride amaro – ogni volta che mi trovavo sul punto di decollare, accadeva qualcosa che mi faceva andare giù. Un tempo, in Italia, i lavoratori erano schedati, anche se non esisteva Internet. La mia presa di posizione per i dipendenti, fatta all’età di 24 anni e figlia di un’educazione in cui ho sempre scelto gli ultimi, i più disgraziati, l’ho pagata per tutta la vita. Insubordinazione, la chiamavano. E mi hanno rovinato così. Mi hanno fatto perdere la stima della mia famiglia, fino a costringermi a lasciare la mia casa».
Sui motivi che l’hanno portato a lasciare Torino e ad approdare a Roma, rimane sul vago, pur affermando con convinzione: «Nella maggioranza dei casi, le cause scatenanti l’emarginazione sociale, l’isolamento e la sofferenza, sono da ricercarsi in famiglia». Forse se ne saprà di più leggendo le diecimila pagine biografiche che sta scrivendo, e che vuole siano pubblicate solo dopo la sua morte o comunque fra molti anni: «quando non potranno più far del male a nessuno, perché io non porto rancore, ho imparato a perdonare anche chi mi ha fatto del male».
Per Luigi, le disavventure affrontate sono state semplicemente il prologo alla missione intrapresa ormai più di 15 anni fa e ancora oggi portata avanti con costanza. L’Alfa 164 parcheggiata ora all’inizio di via delle Mura Aurelie, ferma da tempo perché senza benzina («ma me l’hanno anche sabotata!») è il suo quartier generale. Dentro si può trovare di tutto: giacche, libri di ingegneria, libri di preghiera, utensili.
Ogni due giorni, Luigi deve recarsi in Questura per regolarizzare la sua posizione. Per le forze dell’ordine, la sua rimane una protesta, «e la porterò avanti finché il Signore me ne darà le forze, nonostante i tanti problemi di salute che ho, perché l’isolamento sociale è la peggiore delle condanne a morte, e noi la vediamo compiersi ogni giorno sotto i nostri occhi!»
Luigi è un clochard conosciuto. Di lui si parla in rete, alcuni giornali si sono interessati alla sua storia e a volte anche qualche celebrità gli ha offerto il suo sostegno.
Di fronte al suo racconto, si può reagire in modi diversi. Si può pensare, insinuare, obiettare. Si può scegliere da che parte stare. C’è però almeno una cosa al riparo da ogni obiezione, ed è l’impegno che Luigi porta avanti da anni, praticamente da solo, ispirandosi a don Luigi di Liegro, che dice di aver conosciuto personalmente. «Ho rifiutato di vivere nella stanza che i padri missionari che vivono qui dove ho parcheggiato la mia macchina mi hanno offerto. La utilizzo come deposito di tutto il materiale che raccolgo e che ogni sera distribuisco tra tutti i clochard che cercano di sopravvivere nei dintorni. Le persone sanno che non accetto soldi, ma solo coperte, vestiti e l’occorrente per preparare ogni sera un tè caldo per tutti quelli che, come me, cercano di sopravvivere. Ho rifiutato la stanza perché altrimenti non sarei credibile ai loro occhi: loro si fidano di me perché io sono un clochard come loro, nonostante la giacca e la cravatta»!
Al termine delle due ore, Luigi si scusa per il fiume di parole e ci saluta con un semplice: «Arrivederci. E che Dio vi protegga!»
Nei suoi occhi la gioia, forse la speranza, di avere due persone in più che condividono la sua missione.
Dopo pochi minuti usciamo anche noi, ma nei dintorni dell’Alfa 164 lui non c’è. Lo scorgiamo in lontananza, con la sua andatura ciondolante, l’aspetto distinto e lo sguardo seri un clochard in missione.