Il concerto e alcuni tipi di danza sono forme di ritualità attraverso cui i giovani reagiscono alla disgregazione della società e cercano nuove forme di comunicazione – spesso incomprensibili agli adulti che un po’ le temono – ma non per questo prive di senso. Il libro di Fabio Pasqualetti, “Il concerto e la danza” (ed. San Paolo 2014), offre una lettura interessante di una parte del mondo giovanile spesso misconociuta. Lo abbiamo intervistato per voi.
“Il Concerto e la danza” è un manuale d’istruzione per specialisti dell’educazione, o una cronaca triste di un pubblico giovanile spesso allo sbaraglio?
«Né l’una né l’altra, perchè è un libro pensato per educatori che si trovano a lavorare nel campo del rapporto educativo con i giovani, ma mirato a far comprendere più aspetti allo stesso tempo».
Come mai proprio la scelta di queste due dimensioni e non altre?
«Ho preso questi due aspetti rituali, perchè mi sembravano due elementi che rispondono meglio alla crisi attuale della contemporaneità e della postmodernità, rappresentata dalla disgregazione sociale. Una cultura che spinge sempre all’esaltazione dell’individuo, che però poi si scopre solo e ha bisogno di “trovarsi” con altri e di “sentirsi” con altri. Io dico: “per fortuna c’è il concerto e la danza, per fortuna!”, perchè comunque sono spazi che sanno generare ancora un momento di ritualità celebrativa, molto positiva nello stare insieme».
L’espressione “Sesso, Droga e Rock’n’Roll” dagli anni Sessanta rappresenta il tabù, lo sballo e il divertimento. Oggi secondo lei, il concerto e la danza sono visti più come tabù, più come sballo o più come divertimento?
«Qui non si tratta di orientarci di più o di meno su uno di questi versanti, non la metterei su questo piano. Direi che nel momento in cui all’interno della società non ci sono spazi aggregativi nè di celebrazione, le persone cercano di sopperire a tutto ciò, attraverso qualcosa che viene organizzato, incarnando al meglio queste tre dimensioni del tabù, del ballo e del divertimento».
Ci spiegherebbe un’affinità o una differenza fra la dimensione del concerto e quella della danza?
«Nel concerto, l’idolo rock è la divinità per eccellenza che appare sul palco, una specie di monte Sinai pronto alla rivelazione. La divinità però passa con il tempo, perché può durare una stagione come può durare due anni, o può scomparire subito. Invece la danza, rappresenta un altro tipo di ritualità. Al centro non c’è tanto l’idolo quanto la tribù. Il soggetto della danza è proprio popolo che danza, la “tribù che balla” direbbe Jovanotti».
Cosa ne pensa della proporzione: “Rock Star sta a musica come DJ sta a danza”?
«È vero. Oggi c’è questa tendenza per cui i DJ stanno diventando un po’ alla volta i nuovi idoli, addirittura si creano coreografie e scenografie dove mettono molto in risalto il loro ruolo, a tal punto che diventa difficile trovare la differenza fra un concerto e un raduno di danza, perché comunque la scenografia è molto impattante e quindi c’è un punto di riferimento ben fisso. La musica giovanile spesso è prodotta dalle multinazionali che controllano il mercato musicale».
Come pensa si possa sensibilizzare un giovane affinché non “pratichi” una musica che gli viene imposta?
«Il problema è allargare l’orizzonte, cioè far venire la voglia di ascoltare, anche quello che non è mainstreaming. Bisognerebbe allargare l’orizzonte musicale dei ragazzi, man mano che crescono. Se la musica è un nutrimento, non ti puoi nutrire dello stesso cibo per tutta la vita, dovresti essere capace di ascoltare, digerire, gustare altre sonorità altri generi musicali».
Nell’ultimo capitolo emerge chiara l’idea che l’allarme educativo non riguarda solo i giovani, ma specialmente gli adulti che educano…
«Sì, in realtà quello che voglio dire è “attenzione, se da una parte sto sostenendo che queste forme di ritualità mascherano, oppure denunciano indirettamente un forte disagio sociale, dall’altra devo dire che c’è una forte responsabilità del mondo adulto e quindi mi trovo a contestare fortemente tutto il sistema. Oggi citando Lacane, Massimo Recalcati direbbe che c’è “vaporizzazione del padre”, in soldoni la mancanza di un mondo adulto di riferimento».
Se fosse qui presente un educatore, cosa gli consiglierebbe, alla luce del suo ultimo libro?
«Il libro è stato scritto per cercare di dare una visione, un po’ diversa da quella che di solito viene data, di vari ambienti, e di fenomeni che facilmente vengono demonizzati. Io non nego i rischi che ci sono dietro ambienti come le discoteche o altri scenari simili, ma spiego che i protagonisti sono ragazzi alla ricerca di un senso della vita, che sanno riconoscere un mondo adulto che li giudica, e un altro tipo di mondo adulto che cerca di capirli, e accoglierli».
Pensa che la copertina rispecchi appieno il contenuto del libro? Ci darebbe una sua descrizione?
«La scelta delle copertine dei libri dipende sempre molto dall’editore. La San Paolo mi ha fatto tre proposte e quella che c’è attualmente è quella che lasciava sufficientemente spazio, a livello simbolico, per racchiudere in sè le due dimensioni: il concerto e la danza. Potrebbe essere un raduno rave. O un concerto qualunque. C’è una gran luce, e ci sono delle persone in atteggiamento quasi religioso con le mani alzate».