Sette anni sono pochi per maturare una coscienza, molto pochi se sei nato nel 2011 e, da quando hai emesso il primo vagito, il cordone ombelicale lo hai sostituito con macchine medicali, farmaci, tende di plastica che t’hanno circondato fin dalla culla, con le bombole d’ossigeno al seguito, il respiratore automatico che ha preso il posto del tuo orsacchiotto di peluche.
ADA, il nome di un flagello che costringe chi la vive a proteggersi da qualsiasi cosa, da chiunque, dal mondo. ADA è la compagna di Guenda, una malattia congenita rarissima che impedisce a chi ne soffre di poter produrre gli anticorpi necessari a debellare un semplice raffreddore o contrastare i batteri che si annidano attorno ad un graffietto superficiale. Il suo nome completo è ADA-SCID, acronimo della patologia da Deficit di Adenosina Deaminasi. Si manifestò da subito: pochi giorni per riuscire a comprendere la ragione per la quale Guenda respirava male, l’incubatrice non bastava, il pediatra inerme non riusciva ad accettare che Guenda fosse una tra i 15 neonati condannati ogni anno a non raggiungere il primo compleanno.
Si, sono 15 in tutta Europa, 350 in tutto il mondo i casi di ADA-Scid che ogni anno vengono rilevati, per i quali si dovette coniare il nome di “bambini-bolla”, ovvero costretti ad evitare qualsiasi contatto con il mondo, genitori compresi, destinati ad osservare la creatura attraverso drappeggi di plastica sterilizzata.
Sette anni sono pochi, dicevo, per nutrire una speranza, cullare una scoperta, rincorrere quel traguardo che non riesci nemmeno ad immaginare, oltre l’orizzonte dei tuoi pensieri, del tuo incubo quotidiano, quando lo sguardo acceso di tua figlia pretende attenzione, trasuda la voglia di lottare, di uscire dalla bolla e rincorrere il cucciolo di labrador che scorrazza in giardino.
La prima candelina, dodici mesi di calvario ed il suo sorriso cristallino ancora lì, il profondo blu dei suoi occhi a chiedere ancora la libertà di gattonare sull’erba e tu ancora lì, a scuotere la testa con fare severo, negando quella gioia fatta di normalità che le è proibita. La seconda e la terza fino alla settima, insperata, che non avevi più preghiere e santi ai quali chiedere ascolto.
In sette anni di speranze Guenda è vissuta con le iniezioni semestrali di enzima ADA sintetizzato dai bovini, come suo fratello, non potendo subire l’intervento di trapianto di midollo osseo per incompatibilità ed essendo entrambi destinati alla “bolla”, in perpetuo.
Nel giardino della loro casa, Guenda, Tommaso ed i loro genitori si godono gli strali d’una estate bizzarra, scostumata e pigra, sulle colline dell’agro romano che si dispiegano lungo le pendici della Via Flaminia a pochi chilometri dalla Capitale, dopo sei mesi passati a Milano, vicino alla Bicocca, là dove il San Raffaele ha sistemato il centro di ricerca che il professor Alessandro Aiuti, figlio di uno dei padri dell’ematologia , ha fortemente voluto. La bambina sorride, la zazzera di capelli che hanno iniziato a ricrescere dopo la chemioterapia, che ne ha debilitato le minime risorse immunitarie prima d’essere sottoposta alla terapia genica che lo stesso Aiuti ha perfezionato, con la collaborazione della sola industria farmaceutica che ne condivise le speranze dieci anni addietro: la Glaxo- Smith-Kline.
Sotto l’egida ed il sostegno di Telethon, Guenda è uscita dalla bolla, dopo sette anni. La prima domanda che mi viene da farle è semplice, almeno nelle mie personali valutazioni. “Adesso cosa farai?”. Lei elabora in meno di un istante, sorride ancora e risponde con il cipiglio di chi ne ha viste tante: “adesso voglio andare a scuola, con i miei amici, come una bambina normale”. Normale, come tutti i bambini, che altro?
Lisa è li accanto, sul volto i segni degli anni di battaglie, di sconfitte, di speranze disattese, i solchi che lo sconforto ti lasciano a buona memoria di quello che hai dovuto affrontare. Lo sguardo nero e profondo si inumidisce e si fa lucido per liberarsi in un pianto breve: «tra pochi giorni Guenda potrà andare a scuola, è iscritta alla seconda elementare, ma sarà come il primo giorno di scuola. Non vedeva l’ora… non ha mai veduto l’ora».
Lascio questa famiglia di eroi dei nostri tempi e mi rubo la fotografia di quel dipinto animato, il suono delle risate della bambina. Ma il pensiero si incastra sulle ultime parole di Guenda: “andare lontano per me significa poter decidere della mia vita, perché non ho più paura”.