«Certe volte, siamo quello che vogliamo dimenticare»
Questa è una delle primissime frasi ad effetto con cui il secondo atto della famigerata saga di Andrès Muschietti, regista vincitore dei Saturn Awards con La madre (2013), apre i battenti.
It, il pagliaccio assassino, o per meglio dire Pennywise, il clown ballerino, soprannome ottimo per allettare le sue ingenue e soprattutto spaventate vittime, ritorna sui grandi schermi dopo l’importante successo del primo capitolo del 2017.
Sotto la rinnovata benedizione del suo creatore per eccellenza, il re del brivido, sua maestà, Stephen King, il secondo e ultimo film si concentra sulle vite adulte dei membri del club dei perdenti. Il primo lungometraggio di Muschietti focalizzava invece la sua attenzione all’anno 1989, periodo in cui i ragazzi dell’affiatato club viveva con grande angoscia, ma al contempo innocenza, gli ultimi sgoccioli di infanzia. Tra bulli spietati e genitori opprimenti, paure ed ansie stringono in una fitta morsa le gole dei personaggi, irrobustendo e potenziando la figura di un essere misterioso e aberrante.
Pennywise: metafora della bestia segreta in ognuno di noi
Il tombino: quante volte passando per le strade di qualsiasi città, a causa della spiccata e geniale fantasia di King, abbiamo avuto un brivido lungo la schiena. Il solo immaginare il fondo di un canaletto, che porta diretto agli impianti fognari nel sottosuolo del proprio quartiere, vuoi per la sporcizia, vuoi per l’odore malsano, non ha mai entusiasmato e affascinato nessuno. Nemmeno indagare nel proprio incoscio ha mai recato salute e equilibrio psico fisico. King vuole quindi spiegarci che la nostra mente è come un grande sottopassaggio verso le zone più profonde e oscure della nostra persona? Ognuno la pensi come vuole, ma ciò che emerge, ed è emerso spesso nelle analisi del pagliaccio più famoso della letteratura e del cinema, è che dentro ognuno di noi c’è un Pennywise diverso. Esso si nutre di qualsiasi cosa atterrisca, stressi e incuta terrore al nostro sistema nervoso centrale. Cresce a dismisura se non controllato e una cosa è sin da subito chiarita già dai primissimi minuti di film: dimenticare non equivale a vincere la battaglia, perché chi dimentica ha solo insabbiato una parte di quei demoni, che presto torneranno a bussare alla porta con più rabbia e veemenza di prima.
Si può chiamare come una sorta di vittoria mutilata, il primo grande assalto da parte dei giovani ragazzi contro il clown killer. Il primo film vede un successo finale del piccolo club, tuttavia si cresce, si decide di scappare dai luoghi più tetri d’infanzia e in un ben che non si dica, dimenticare risulta più facile.
27 anni passano, la vita scorre, non lascia scampo a rughe, primi veri bilanci, le paure sono ancora le stesse, anche se soffocate e tenute in cantina, anzi nei tombini più profondi della città. Che cosa potrebbe succedere, se qualcuno decidesse di fare pulizie dell’intero caos stagnante nell’oscurità più profonda?
Sei uomini e una donna, tutti ormai in piena età adulta, si ritrovano a fare i conti con il mostro nascosto dentro l’armadio; non si è un tantino cresciuti per aver paura di certe cose? Mai, soprattutto se l’uomo nero o il mostro dell’armadio è cresciuto insieme ai personaggi stessi, divenendo un perfetto mix letale di sconforto e orrore.
Da vedere a cinema…
Un film ben strutturato, forse esagerato nella quantità con le sue 2 h 50 – attenzione qualità non è sinonimo di mattone – garantisce ottimi spunti di riflessione, citazioni e omaggi allo scrittore Stephen King, tra l’altro autore anche di un cameo alla Hitchcock e Stan Lee. Complimenti sinceri al regista Muschietti, intraprendente e visionario sì, ma mai arrogante, presuntuoso e invadente con il resto dell’opera. Menzione particolare va alla grande performance di Bill Skarsgård, attore svedese, classe 1990. Il classico attore dalla viso di gomma, maschera naturale inquietante, cupa, anche affascinante, potrebbe recitare la parte del pagliaccio assassino anche senza trucco e costume, risulterebbe aberrante e spietato allo stesso modo.
Lati negativi: la lunghezza penalizza l’opera, che ad un punto pare rallentare bruscamente, dando l’idea di dover temporeggiare e cucinare una chissà quale suspence, già alta comunque. Un altro elemento leggermente forzato è il continuo uso di situazioni volte a creare l’effetto balzo dalla poltroncina. Una mossa elettrizzante per un film horror, il problema sorge se situazioni di spavento e tensioni si trasformano in piccoli clichè, visti e rivisti nel cinema thriller/horror.
Detto questo, correte al cinema, certe emozioni possono essere regalate solamente da una sala spenta, il cui grande schermo cerca da più di 100 anni di raccontare storie di mondo, di vita mai banali e scontate.