L’età di mezzo. Quella crisi di mezz’età che coglie verso i 50 anni, Janet
Frame, una delle due più importanti scrittrici neozelandesi insieme a Katherine
Mansfield, l’ha avuta tra i 20 e i 30 anni, durante la guerra. Nata nel 1924 in
un paese dalla natura incontaminata e candidata per due volte Premio Nobel, nei
suoi libri è riuscita a spiegare, attraverso una scrittura complessa e
coinvolgente, come si perse in quella “selva oscura”, con quali conseguenze e
come ne sia uscita.
La depressione
dell’”età di mezzo”, riconosciuta da sociologi, economisti, biologi e psicologi,
è quel nadir umano, quel punto più basso della felicità umana che si basa su
variabili oggettive come l’età, a cui vanno associate altre variabili implicite,
che incidono molto sul benessere, come la salute, la tristezza, la dipendenza
economica. Janet Frame, durante il suo percorso formativo, si trova compressa tra la ricerca di un’
occupazione e di un amore; non deve affrontare né la povertà né la vecchiaia, ma
un disagio interiore che è evidente in tutta la sua narrativa.
Le paure e le
emozioni che attraversano la sua scrittura ci raccontano bene quello che vive,
con metafore che fanno spesso riferimento ai colori e alla natura che la
circondano: «Scriverò della
stagione del pericolo. Mi rinchiusero in ospedale perché si era aperto un
grande squarcio nel banco di ghiaccio fra me e gli altri che guardavo
allontanarsi alla deriva, insieme al loro mondo, su un mare color malva…».
Anche Jane Champion, la regista del film sulla sua autobiografia, fa
riferimento ai colori quando descrive il suo lavoro: «…Per quanto riguarda i
colori, ho sempre pensato al rosso e al verde per il mio film. Il verde è
colore della Nuova Zelanda ed il rosso è il colore dei capelli di Janet…».
Cos’è la felicità. Se si definisce felicità il rapporto tra aspettative e mezzi
per raggiungerle, si può definire infelicità la rinuncia alle aspettative e
l’accettazione del principio di realtà in aspetti fondamentali della vita
quotidiana, come la socialità e il lavoro.
«I miei anni tra i venti e i trent, — ha dichiarato Janet Frame in
un’intervista — sono scappati via senza lasciare tracce, come se io non
esistessi». In undici romanzi e molti altri racconti, saggi e poesie, la
scrittrice racconta l’insicurezza e la solitudine che la portarono a vivere
quegli anni giovanili ricoverata in un ospedale psichiatrico, con una diagnosi
di schizofrenia in seguito rivelatasi sbagliata. Il suo sdoppiarsi la aiuta
però ad avere ancora delle aspettative di felicità; attraverso la scrittura,
l’arte, le metafore esprime il suo mondo, “that world”, quello abitato dagli
artisti e dagli anticonformisti, che si oppone a ”this world”, quello abitato
dai normali, dagli adulti senza immaginazione.
La scrittura per lei è
precisione, al pari del cucito, attività che svolge altrettanto bene: «Scrivo le mie parole in modo che siano
perfette. (…) La grande abilità di forgiare, selezionare e comporre (…) dipende
dalla passione e dall’immaginazione». Il suo primo libro di
racconti, “La laguna”, episodi di vita quotidiana, vince un importante premio
letterario: nel suo percorso umano di
sofferenza questo evento segna un percorso di rottura delle regole e di
apertura a un nuovo linguaggio, quello che le consente di superare il confine
dell’infelicità.
Un angelo alla mia tavola. Nell’autobiografia “Un angelo alla mia tavola”,
la malattia diventa
come un guscio e la scrittura
un’evasione, una giustificazione rivolta a chi le dice che “scrivere non è una
bella cosa”. Di famiglia modesta, svolge i lavori più disparati,
dall’infermiera all’insegnante, alla cameriera, sempre con la paura incombente
dell’ospedale psichiatrico. A differenza di Virginia Woolf, per lei la
scrittura è un lasciapassare, un modo per esprimersi senza disturbare: «(…) Io
per paura continuavo a obbedire e cercavo perfino di adattarmi all’opinione che
avevano di me, riservandomi uno spazio di ribellione solo all’interno, in
un’immaginazione che non ero neppure sicura di possedere». La sua crescita
passa dunque attraverso un difficile percorso psicologico e un viaggio in
Europa che la conferma scrittrice; tra i suoi scritti più importanti “Dentro il muro”, il racconto della sua
esperienza negli ospedali psichiatrici; “La leggenda del Fiore
della Memoria”, sul concetto di distanza ed estraneità, i “Giardini profumati
per i ciechi”, un racconto visionario sul senso di colpa e “Gridano i gufi”,
sull’abnegazione familiare, tutte tematiche che prendono spunto dai sentimenti
della scrittrice.
In questi libri emergono anche la consapevolezza sulla società che la circonda,
la scelta dell’indipendenza come modello di vita, i riferimenti culturali quali
Eliot, Keats e Shakespeare. Il
senso di non appartenenza che la accompagna e l’instabilità della sua vita non
le impediscono di capire l’importanza dell’esistenza, come in “Cuor di
Formica”: «Dovete uscire.. e vedere (…), e allora saprete».
La sua scrittura esprime la bellezza
delle cose imperfette, delle persone timide e insolite, che vivono situazioni
incerte, dove la realizzazione individuale porta a una speranza condivisa, che
passa anche attraverso strani sentimenti.