La “Fase due” tra le calli di Venezia

Dopo la parziale riapertura Venezia si risveglia, tra cautele prese per evitare i contagi, sparuti turisti pomeridiani e serate movimentate. Ecco il racconto di una giornata passata in laguna ai tempi del Covid-19.

Il fiato mi appanna gli occhiali a causa della mascherina, i guanti producono uno sfrigolio plastico, mentre tento di infilarmeli goffamente alle mani. Non sono dispositivi molto confortevoli, in questi mesi lo abbiamo capito tutti, ma il treno sta per arrivare. Oblitero il mio biglietto e la macchinetta mi ricorda che i convogli sono igienizzati, che  posso viaggiare tranquilla, basta che io indossi sempre la mascherina. Quasi ci tenesse,  prima del viaggio, a precisare che prendere il treno non è più come prima. Ma d’altronde, cosa è rimasto immutato? Sono sola in stazione, non c’è nessuno ad aspettare con me la corsa con capolinea Venezia Santa Lucia. Probabilmente perché l’orologio segna l’una e un quarto di un assolato pomeriggio di maggio. Probabilmente perché sono trascorsi solo sei giorni da quando il presidente Conte ha annunciato una parziale riapertura esclusivamente all’interno delle regioni: la tanto attesa “Fase 2”. Molti cittadini portano ancora le cicatrici della precedente e più rigida chiusura. Ne consegue anche che la prudenza pare non essere mai troppa, e quindi si tende a non muoversi senza remore, non ancora.

 

Mentre salgo in treno rifletto sul significato di questa Fase 2, di questa aggrovigliata richiesta di presa di responsabilità da parte degli italiani, i quali, dopo gli esiti della Fase 1, dovrebbero avere ben chiari i rischi di possibili nuovi focolai. Rifletto però anche sulle immagini provenienti da Milano, zona navigli, immagini che hanno fatto il giro di tutta Italia. Noi giovani siamo stati criticati tantissimo. “Irresponsabili!”, ci hanno chiamati. Ma che è un giovane, se non questo? Scriveva l’inglese William Hazlitt: “Nessun giovane può credere che un giorno morirà”. Diciamo che ce la siamo meritata però, in questa occasione, tale nomea.

 

Il treno è quasi deserto e le persone sui vagoni precedenti si possono contare sulle dita di una mano. Mi accomodo all’interno di uno scomparto vuoto. Con sorpresa noto che non c’è nessuna segnaletica che mi indichi dove io debba sedere. Il controllore del treno mi lancia un’occhiata, ma non si avvicina per controllare il mio biglietto. Vorrei chiedergli cosa pensa, quanta gente incontra in questi giorni, se si sente protetto sul luogo di lavoro, ma si allontana verso un altro vagone. Non mi resta altro da fare, dunque, che accomodarmi in quello che è diventato il mio vagone personale. A rompere il silenzio ritmato del sobbalzare del treno ci pensa la voce dall’altoparlante sopra di me: mi ricorda e raccomanda l’uso della mascherina. Trenitalia si è attivata per la riapertura con tutta una serie di misure a tutela della salute, per poter garantire sicurezza ai viaggiatori.

Man mano che il convoglio si avvicina a Venezia, il treno inizia a popolarsi, salgono altre persone. Tutte controllano con gli occhi a terra. No. Niente segnaletica. Si accontentano di sedersi abbastanza distanziate l’une dalle altre. Tanto lo spazio per ora c’è. Dai finestrini si scorge l’acqua della laguna. Ho letto che da quando siamo relegati in casa, le meduse sono tornate a impadronirsi dei canali, liberi questi ultimi dalle gondole, lasciate alla catena per l’assenza di turisti.

 

In stazione la situazione diventa leggermente più movimentata. Qui la segnaletica è ovunque, intuitiva e chiara, scandisce gli spazi, a preciso monito del distanziamento sociale. La prima cosa che noto è riassumibile in una sola parola: ASSENZA. Assenza di quel brulichio di persone che da sempre solletica i marmi su cui poggia Venezia. Le persone che si muovono nei pressi della stazione sono pochissime. Sparuti e rari i turisti provenienti dalle provincie del Veneto e non oltre, a causa delle disposizioni ministeriali che vietano gli spostamenti tra regioni. Sono famiglie, fotografi, amici che hanno deciso di fare una passeggiata dopo la riapertura. Li si riconosce per le macchine fotografiche appese al collo, per gli zaini, per gli sguardi curiosi che lanciano attorno, quasi ad assaporare la rinnovata libertà di sentirsi viaggiatori di mondo dopo due mesi passati tra le mura di casa. Mi unisco al loro sentire. Ma è comunque un’assenza alla quale Venezia non è abituata, avvezza invece ad accogliere frotte immense di turisti meravigliati, sbigottiti, provenienti da tutto il globo. Non oggi però.

Oggi infatti i chioschi dove solitamente si vendono le tipiche mascherine veneziane sono chiuse. Non si scorgono banchetti carichi dei monili provenienti dall’isola di Burano. I venditori abusivi che di solito affollano i dintorni della stazione, con i loro lenzuoli stesi a terra  carichi di borsette, cinture, oggetti etnici e quant’altro di più variegato ci sia, sono scomparsi magicamente nel nulla.

 

Mi  avvicino ad una chiesa, incuriosita dalle eventuali disposizioni prese per accogliere la gente, ma è chiusa “a causa lavori in corso per l’emergenza”. Così recita un cartello, a tratti leggermente sollevato dal vento. Passo oltre. Venezia sicuramente non soffre di carenza di chiese. Inoltre il mio obiettivo è la basilica di San Marco, verso la quale mi avvio.

Lungo le calli, le tipiche strette viuzze di Venezia, i negozi, normalmente presi d’assalto, espongono mesti cartelli, con i quali si scusano con la clientela della chiusura o avvisano riguardo la nuova organizzazione,  nel caso l’attività sia rimasta aperta. Alcuni cartelli invocano aiuto. Uno recita #vogliamoriemergere. L’assenza di persone mista ad una tale segnaletica getta per un attimo le calli della città in un’atmosfera densa di sconforto. Effettivamente la situazione è chiara: Venezia è una città che vive di turismo. Da quando quest’anno il carnevale è stato cancellato a causa dell’emergenza sanitaria, la città ha cominciato inevitabilmente ad appassire, e con essa le persone che vivono di rendita da attività appartenenti a questo settore.

 

Le piazze del quartiere ebraico sono vuote, le serrande abbassate. I ponti e i campi veneziani portano alle orecchie di chi viaggia per le calli il rumore delle onde dei canali, null’altro. Incrocio alcune persone che si scattano foto a vicenda, utilizzando magistralmente gli scorci più belli della città come sfondo. La mascherina viene fatta sparire dal volto giusto per il tempo di uno scatto, poi ci si affretta a indossarla nuovamente. Solamente avvicinandomi alla piazza principale il numero di persone che incrocio comincia leggermente a salire. Il silenzio si interrompe, fino a quando non si giunge sbirciare piazza San Marco.

Il numero di persone è certamente più elevato. C’è chi chiacchiera, chi passeggia, chi immortala la situazione così particolare. È quasi straniante vedere una tale piazza semi-deserta. Avvicinandomi alla basilica mi accorgo che questa è presidiata dalle forze dell’ordine: un cordone di poliziotti invita le persone a passare ad una distanza di almeno cinque metri dal perimetro della chiesa. Chiedo il motivo di tali restrizioni: stanno sanificando la basilica, e per questioni di sicurezza nessuno deve essere nei paraggi. Scoprirò solo il giorno dopo che il reale motivo è stato allarme bomba, rivelatosi fortunatamente falso, ma che ha smosso artificieri, carabinieri, poliziotti e vigili del fuoco. Circumnavigo dunque l’imponente basilica che, noncurante dell’allarme, continua a stagliarsi verso il cielo, come fa maestosamente dal 1063.

 

Fallito il tentativo di infilarmi all’interno della basilica, mi muovo verso la fine della piazza, dove alcuni bar sono aperti per accogliere le persone, le quali si ristorano a debita distanza le une dalle altre. Tutte adiacenti le une alle altre sono invece le gondole, simbolo di Venezia, le quali giacciono mestamente solleticate dalle onde. Non vi sono turisti da trasportare e dunque, coperte da teli blu, restano ormeggiate in ondeggiante attesa. Il mio pensiero va ai gondolieri Veneziani, i quali vivono di turismo. È stata però raccolta una bellissima iniziativa da parte di questa categoria: donare un tour del valore di cento euro a medici e infermieri che sono stati impegnati nella lotta contro il Covid-19.

Poco più avanti il famoso Ponte dei Sospiri si lascia fotografare dagli sparuti turisti, mentre i tavolini dei bar restano silenziosamente inutilizzati. Molti proprietari di attività del genere hanno infatti preso la decisione di non rialzare le serrande: i costi della riapertura non sarebbero probabilmente coperti dallo scarsissimo afflusso di persone in vena di un caffè pomeridiano.

 

Il tempo scorre: è pomeriggio inoltrato. L’afflusso di persone continua ad aumentare. Decido dunque di seguire il flusso di turisti verso la Libreria Acqua Alta, uno dei posti più iconici di Venezia. Il proprietario, Lino Frizzo, è stato intervistato da La Voce Di Venezia in merito alla riapertura. Decido di andare a curiosare sulle misure prese per evitare i contagi. Si entra al massimo 12 persone alla volta, e all’entrata è obbligatorio igienizzare le mani. La libreria non ha perso assolutamente nulla del suo fascino. Entrando si è circondati da libri di ogni genere e data, l’odore della carta vecchia è sempre quello e impregna l’aria, nemmeno ai felini che popolano la libreria pare interessare che i visitatori si presentino bardati con buffe mascherine multicolore.

Vi è poco più avanti l’esercizio di una parrucchiera, rappresentante di uno dei settori che maggiormente ha sofferto la chiusura. È molto gentile, ha appena finito una cliente e dunque mi può accogliere. Mi fa entrare, non prima di avermi misurato la temperatura. “Scusami, devo farlo per prassi” mi dice. Conclusa la procedura  cominciamo a chiacchierare. Mi racconta di aver sofferto economicamente e sentimentalmente per la chiusura della sua attività. Mi spiega però come, dall’avvio della “Fase 2”, i clienti siano tornati. L’agenda per i prossimi giorni è piena:“Sono tutti ansiosi di darsi una sistemata dopo due mesi di trascuratezza” mi dice ridendo. Arriva una nuova cliente, e lei non può trattenersi oltre. Nel tardo pomeriggio molti esercizi come bar, gelaterie comincino ad aprire e ad essere frequentati da avventori.

 

Mi impunto però sull’obiettivo di entrare all’interno di una chiesa, e trovo aperta quella dedicata a Maria Formosa. Qui le disposizioni per accogliere i fedeli sono molteplici. Una signora all’entrata invita i visitatori a igienizzarsi le mani. Le panche non si sono mosse dai loro posti abituali, ma sono segnate con dei nastri. I posti in cui non ci si può sedere sono loquacemente sbarrati. Le entrate sono separatamente adibite: l’una per entrare, l’altra per uscire, disposizione atta ad evitare il più possibile che le persone possano venire in contatto le une con le altre.

Ultima tappa: la basilica di Santa Maria della Salute, la quale però resta silenziosamente muta nella sua imponenza marmorea. Questa chiesa fu eretta dai veneziani come ex voto alla Madonna per ringraziarla della liberazione dalla peste, la quale si abbatté su Venezia tra il 1630 e il 1631. È ormai quasi sera. I bar diventano sempre più affollati, tra le calli alcuni runner praticano esercizio sportivo zigzagando tra le persone. Più ci si avvicina alla stazione, più il numero di persone che affluiscono dalle zone limitrofe a Venezia aumenta. Sono soprattutto campanelli di giovani, in compagnia degli amici. Allontanandosi dal centro si può osservare il flusso di persone sempre più crescente che si immergono nei vicoli della città, la maggior parte dei quali sono ragazzi e ragazze, incuranti delle distanze di sicurezza. Mi tornano in mente per la seconda volta in una giornata le scene immortalate ai navigli. “Orsù, siamo nel fiore dei nostri anni, non fare la guastafeste” mi dice una voce nella testa. “Nessun giovane può credere che un giorno morirà”, anche se la narrazione dei “giovani irresponsabili causatori dei contagio” continua ad avere sfumature troppo semplicistiche e di comodo per poter giustificare un futuro possibile aumento dei contagi. 

 

Il treno che parte da Venezia, a differenza di quello dell’andata, ha una segnaletica chiara: i posti accessibili sono a scacchiera, ognuno sa dove deve accomodarsi e quali sedili lasciare liberi, l’entrata è distinta dall’uscita e a terra segnali indicano quale sia la via da percorrere. Una signora si siede davanti a me, sempre secondo il posizionamento a scacchiera per rispettare il distanziamento di un metro. Ha la mascherina, ma vedo dai suoi occhi che sta sorridendo, probabilmente sazia di una giornata passata a passeggiare tra le calli. La capisco. È iniziata la “Fase 2”.

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