03 Apr 2021

La musica folk, che racconta le lotte delle donne

Breve viaggio con Susanna Buffa nel mondo del Folk Revival italiano. Le donne custodi di antiche tradizioni, con percorsi professionali diversi, ma uniti da un’unica passione: la musica

Foto: Giovanna Onofri

Susanna Buffa romana classe 66, per anni giornalista e insegnante musicale, poi cantante del genere Folk Revival, ha lavorato con varie formazioni vocali con le quali si è esibita anche all’estero. In questa intervista ci condurrà in un mondo forse poco considerato, quello delle tradizioni popolari. Probabilmente tutti noi oggi diamo per scontato il passato dimenticandoci del suo valore, mentre citando Bernardo di Chartres, filosofo francese del dodicesimo secolo, «noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti».

 

Tu nasci come giornalista e insegnante musicale e poi a un certo punto diventi cantante di genere Folk Revival. Potresti spiegare a un pubblico giovane cos’è il Folk e perché la scelta di questo genere?

«Io sono appassionata della musica in generale e come giornalista seguivo la musica Folk di tutto il mondo, poi, circa quindici anni fa, ho incontrato Lucilla Galeazzi, figura di spicco della musica popolare italiana e conosciuta in ambito internazionale. Le ho chiesto di poter studiare insieme e pochi mesi dopo ecco che eravamo a cantare: è iniziato tutto così. Abbiamo fatto spettacoli in duo e in trio e abbiamo lavorato anche all’estero. Ho scelto questo genere inizialmente per interesse puramente musicale e poi mi sono accorta che attraverso questi canti si trasmettevano dei contenuti, che non erano scritti in nessun libro di storia, perché questa musica nasce come espressione di una storia di popolo: dei contadini prima e degli operai dopo. Le vicende descritte in questi canti non sono riportate sui libri ma sono comunque importanti».

 

Ho notato che gli incontri importanti della tua vita artistica sono personaggi femminili: questo significa qualcosa per te?

«La figura femminile nel mondo della tradizione popolare musicale è importante, perché essa è la custode di tutto un patrimonio di tradizioni, usanze e mestieri; le donne contadine nei momenti cruciali, quando gli uomini erano in guerra, hanno sostentato i propri paesi con il loro lavoro. Poi la donna è sempre stata abbastanza coraggiosa, nel senso che non ha mai avuto paura di mostrarsi nei suoi aspetti più deboli, di mostrarsi così com’era. E inoltre sono state alcune donne importanti come la fiorentina Caterina Bueno, morta alcuni anni fa, e Italia Ranaldi di Poggio Moiano, che hanno ricercato e recuperato la gran parte dei canti che conosciamo della tradizione contadina. Un discorso a parte riguarda le mondine cioè le monda riso della Pianura Padana che sono importanti perché già nel 1908 lottavano per le otto ore di lavoro giornaliero. Molti dei diritti del lavoro di cui godiamo oggi li dobbiamo a queste donne che più di un secolo fa combatterono per una condizione di lavoro che fosse dignitosa per tutti. Sembra che nel Folk il valore della figura femminile sia più riconosciuto».

 

Una tua caratteristica è quella di fare ricerca in ambito musicale e so che coltivi l’interesse per svariati generi: che cosa ne pensi del Rap e del Trap, tra i più in voga fra noi giovani?

«Per un certo periodo ho curato laboratori di musica nelle scuole medie, dove mi recavo con un bel po’ di coraggio: puoi immaginare i ragazzini di 12-13 anni quanto ridacchiano, quando arriva una con la chitarra e canta cose di questo genere. Invece è stato bello, perché l’interesse di molti ragazzi è rimasto catturato. Io e il mio gruppo di lavoro, con l’aiuto di alcune diapositive, abbiamo ripercorso la storia italiana tra la Prima e la Seconda guerra mondiale e ci siamo soffermati sulla forma di canto in ottava rima, tipica della zona di Amatrice e dell’alta valle dell’Aterno, la quale ha una forma espressiva molto simile a quella del rap: due persone fanno una specie di gara fra di loro improvvisando delle poesie in endecasillabi su un dato tema e questo avviene appunto anche nelle canzoni rap dove due persone si alternano cantando in segno di sfida. La Trap credo invece sia la musica popolare di adesso: come allora si faceva musica con i mezzi che si avevano a disposizione (seconda voce cantante qualche volta uno strumento a fiato, come zampogna o tamburello e più tardi organetto), allo stesso modo oggi si fa musica con quello che si ha a disposizione attraverso i computer, i sintetizzatori modulari o il telefono, per lo più per dar voce a una protesta».

 

Ho ascoltato la canzone “Bella sei nada femmina” tratta dal tuo album “Suoni dal buio” uscito nel gennaio 2020 e sono rimasta colpita dall’ingenuità e dal romanticismo alla base di questa semplice storia d’amore. Si tratta di una serenata?

«È una ballata marchigiana, si tratta di una serenata, scoperta e riportata in vita dal gruppo musicale La Macina, che fa musica da 50 anni. È vero, sembra ci sia una grande ingenuità ma in realtà quest’ultima è un clichè che si ritrova anche in altre serenate, come ad esempio “La Vizzocona” che vorrebbe dire la bizzoca, la bigotta. Il testo di quest’ultima canzone narra di un fidanzato molto arrabbiato, perché la sua lei fa gli occhi dolci e ammicca a molti altri uomini, però alla fine le dice che, se farà la brava, lui la sposerà. Un modo di considerare la donna che sicuramente non ci piace, perché vorrebbe dire “se fai quello che dico io, bene, sennò saluti”. L’impressione, è vero, è quella che ci sia un’ingenuità di fondo sia da parte degli uomini che da parte delle donne, ma come sappiamo nella vita reale è ben diverso; queste canzoni venivano cantate con lo scopo di fare affacciare le donne alla finestra, e così ottenere il permesso per continuare il corteggiamento. Diciamo che era un modo per iniziare, per attaccare bottone e conoscere qualcuno».

 

In che modo ritieni che la musica Folk possa comunicare efficacemente contenuti, oltre che emotivi e personali, anche storici e sociali?

«Utilizzando brani musicali già esistenti, le canzoni folk venivano create per raccontare storie relative a fatti di cronaca, omicidi, episodi avvenuti durante la guerra, proteste contro le autorità, con la finalità di informare la popolazione, per la gran parte non alfabetizzata. La musica popolare comunicava attraverso i cantastorie, come oggi comunica attraverso lo streaming e i social, in maniera ugualmente efficace. Poi c’era un modo diverso di comunicare in base anche alle aree geografiche: per esempio in Umbria i testi delle canzoni evidenziano una maggiore delicatezza nei modi di fare, anche nei corteggiamenti, mentre in altri luoghi prevalgono sfacciataggine e violenza come nella musica popolare romana, che parla spesso di fatti di cronaca nera, cosa che peraltro ricorre anche nella musica popolare britannica di fine ‘800 e primi ‘900. Nei testi di queste ultime canzoni appare evidente come la vita umana non valesse nulla all’epoca, nel senso che per qualunque stupidaggine le persone potevano essere uccise: per una lite, per invidia e gelosia anche tra fratelli e sorelle».

 

Ho notato che hai effettuato spettacoli anche all’estero: come è stata accolta la tua proposta in quei contesti?

«La nostra musica Folk è stata accolta sempre molto bene nei Paesi dove sono stata, cioè Francia, Belgio, Lussemburgo, Svizzera e anche Qatar. Gli stranieri sono sempre molto interessati alla musica italiana, che ha caratteristiche varie e ricche, tra cui spiccano per esportabilità tarantella e pizzica in quanto musiche ballabili. In questi Paesi anche i bambini, abituati ad assistere ai concerti in altre lingue fin da piccoli, hanno apprezzato la nostra musica: è accaduto in Belgio, a Marcinelle, dove io e Lucilla 5 anni fa abbiamo tenuto un concerto di musica umbra in una miniera dove, negli anni ’50 a causa di un incendio, sono morti molti operai italiani che erano emigrati lì per lavorare. In Qatar si è creata una situazione diversa, perché lì si trattava di partecipare ad un festival di tradizioni popolari del mondo, dove con Ludovica Valori e il nostro collega Giuliano Gabiele molto bravo con il canto, l’organetto e il tamburello abbiamo rappresentato l’Italia. Una bella esperienza, perché le donne del posto, che possono lavorare, guidare e vedere gli spettacoli, indossavano comunque veli neri, lunghi fino a terra, e non erano abituate a vedere altre donne che si mettono in mostra cantando in pubblico».

 

Tu sei una giornalista musicale e anche una cantante: è molto difficile per un giovane interessato farsi strada in questi ambiti?

«Farsi strada in ambito giornalistico è bello ma difficile perché in genere non si viene pagati adeguatamente a meno che non si venga assunti dai grandi quotidiani. È un bellissimo mestiere che può portare a strade professionali diverse come il fare ricerca o inchiesta, cronaca, oppure occuparsi di cultura. Adesso una cosa buona è che ci sono tanti corsi che preparano meglio a questa professione anche tecnicamente e psicologicamente. Per quanto riguarda il mestiere del fare musica è ancora peggio perché c’è la pandemia e non sappiamo quanto durerà, considerando che a Roma suonare è diventato impossibile se non nei grandi teatri, gli unici a disporre di spazi adeguati.  Però certamente questo non deve scoraggiare perché se la passione è quella bisogna seguirla sia se è quella di scrivere, sia se di fare musica, di cantare o di comunicare attraverso i nuovi media; io dico sempre che la cosa migliore è provarci comunque».

 

La comunicazione adesso avviene soltanto via web: questa situazione della pandemia come ha influenzato la tua carriera? E che tipo di prodotto musicale si può proporre attraverso i media?

«La pandemia ha influenzato le carriere di tutti ma ha danneggiato particolarmente quelle dei musicisti e delle persone di spettacolo, le prime a fermarsi; io ho fatto l’ultimo concerto il 26 febbraio del 2020. Anche come giornalista mi sono fermata, ho pubblicato una monografia nel giugno scorso su un’artista Folk inglese che si chiama Sandy Danny ed è stato l’unico mio lavoro retribuito dell’anno. Chi fa lavoro d’arte inoltre non può più provare con gli altri artisti, non può fare concerti e molte cose non è possibile farle on-line, perché la latenza non permette la sincronia necessaria, ci sono difficoltà tecniche e difficoltà di approccio. Io non ho mai fatto concerti on-line, però da due settimane ho riavviato un laboratorio di canto popolare su richiesta di alcuni miei ex allievi e ho ricominciato a insegnare, soprattutto per il piacere di rivederli ma si perde il gusto del cantare insieme, perché il suono arriva tutto spezzettato. Ci sono tanti limiti ed io un altro modo di lavorare efficacemente non l’ho ancora trovato».

 

Grazie tante Susanna, hai arricchito il nostro bagaglio culturale!

«grazie a voi per avermi dato questa opportunità!»

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