Il tema della misericordia è cruciale nell’insegnamento e anche nell’azione di Papa Francesco, che attorno ad esso sta proponendo un nuovo modello di Chiesa. Anche la giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali di quest’anno è stata dedicata al tema “Comunicazione e Misericordia. Un incontro fecondo”. Per l’occasione è uscito l’omonimo libro, edito dalla Las, e curato da Maria Emanuela Coscia e Teresa Doni, entrambe docenti presso l’Università Pontificia Salesiana . Oltre a curare il volume, Teresa Doni ha pubblicato un breve saggio dal titolo: “Il dialogo tra religioni: un cammino di comunicazione e misericordia”. Ne abbiamo parlato con lei.
Lei tocca un aspetto cruciale del pontificato di Papa Francesco: la Chiesa non deve più essere più considerata come la detentrice esclusiva della verità, ma più semplicemente, mi passi il termine, la “promotrice” della misericordia. Dunque lo spostamento del focus è notevole e ci restituisce un immagine della Chiesa completamente rinnovata. Che cosa può e deve ancora fare Francesco per rendere la Chiesa un’istituzione sempre più “umile” e “povera” come la vuole lui in modo da attecchire nei cuori di tanta gente?
«Partendo dal presupposto che la misericordia occupa un posto centrale in ogni grande religione, per quanto riguarda il cristianesimo, sappiamo che il cuore di tutto il Vangelo è costituito proprio dal messaggio di misericordia che Gesù ha insegnato con le sue parole e soprattutto con la sua vita. Papa Francesco non ha paura di riaffermare questo principio fondamentale e di testimoniarlo con le scelte concrete della sua vita e con un linguaggio chiaro e senza ambiguità. Certamente la Chiesa nei secoli ha sempre conosciuto testimoni coraggiosi e coerenti, così come, purtroppo, ha conosciuto anche momenti di poca coerenza con il Vangelo. Sicuramente Papa Francesco costituisce un “segno dei tempi”: il papa giusto al momento giusto, perché adesso, forse più che in tempi passati, la gente ha bisogno di guide che sappiano indicare chiaramente la strada da percorrere. Il continuo richiamo di Bergoglio alla povertà, al distacco dai beni terreni e dai giochi di potere, al vero compito del cristiano, che è quello di servire gli “ultimi” che abitano le periferie esistenziali del mondo, credo che risponda pienamente a quanto il mondo si aspetta dalla Chiesa oggi».
Lei pensa che Papa Francesco si stia ispirando ad uno dei suoi predecessori? Se sì, quale Papa le viene in mente e quali sono le opere di misericordia che creano un collegamento con l’attuale Pontefice?
«Sicuramente papa Francesco si pone in continuità con i Pontefici che l’hanno preceduto, a partire da Papa Giovanni XXIII, e sintetizza in modo originale quello che è stato il percorso della Chiesa dal Concilio Vaticano II a oggi. Ovviamente le caratteristiche personali di ogni pontefice sono uniche e forse non serve molto cercare somiglianze e differenze tra l’uno e l’altro, però certamente l’arrivo di Papa Francesco è stato in qualche modo ‘preparato’ dai suoi predecessori, che negli ultimi anni hanno mostrato un volto della Chiesa sempre più vicino alla gente e ai suoi problemi. Dalla prima visita di papa Giovanni al carcere di regina Coeli del 1958 a papa Francesco che lava i piedi ai detenuti di Rebibbia nel 2015, il cammino della misericordia nella chiesa dimostra continuità e novità: continuità con l’insegnamento evangelico e novità nella radicalizzazione del segno. Servire con spirito evangelico significa inginocchiarsi di fronte al povero, al malato, al “diverso”, al “lontano”- anche per appartenenza religiosa. Oggi forse i simboli tradizionali non dicono più molto all’uomo disincantato, quindi la stereotipizzazione della lavanda dei piedi a bambini innocenti non era più in grado di rappresentare la forza del messaggio di Gesù. Vedere un Papa che lava e bacia i piedi di carcerati, stranieri, musulmani invece, credo che non lasci dubbi su quello a cui siamo chiamati tutti noi che ci definiamo cristiani».
In questo volume si tende a collegare i concetti di comunicazione e misericordia. Se l’obiettivo è quello di sensibilizzare le persone al dialogo, come valuterebbe una maggiore convergenza tra le varie confessioni religiose intorno ad un “denominatore comune” chiamato misericordia?
«In primo luogo ritengo che un incontro autentico tra appartenenti a diverse fedi religiose debba proprio cominciare con la condivisione di opere di misericordia. Unirsi a credenti in altre religioni per realizzare insieme progetti di carità, di accoglienza, di servizio crea le basi per un dialogo che può anche andare oltre, perché fa conoscere veramente, stabilisce legami profondi, fa toccare con mano che “il nome di Dio è misericordia” per tutte le religioni e nessuna ne ha l’esclusiva o il primato. Se invece si parte da discussioni e dispute teologiche e dottrinali, allora si rischia di non arrivare da nessuna parte e restare ognuno arroccato nella propria, miope visione della “verità”. Fortunatamente esistono già, nel mondo e anche in Italia, queste esperienze di condivisione tra gruppi appartenenti a confessioni cristiane diverse (basta pensare al “cordone umanitario” per i profughi siriani realizzato dalla Chiesa Valdese in collaborazione con la Comunità di sant’Egidio) e anche a religioni diverse (in Terra Santa esistono diverse realtà caritative formate da giovani cristiani, ebrei e musulmani)».
In un passaggio del libro lei definisce il concetto di “autocomprensione cristiana”, che dovrebbe aiutare noi cristiani a capire che non bisogna eccedere in nessuna direzione nell’ambito della nostra coscienza di credenti, per costruire un rapporto solido con le altre confessioni religiose.
«L’espressione “autocomprensione dell’universalità cristiana” ovviamente non è mia, ma è il risultato della riflessione di teologi cristiani, sia cattolici che protestanti e rappresenta, secondo me, il raggiungimento di una consapevolezza più profonda dell’essere e sentirsi appartenenti alla religione cristiana. Una consapevolezza che, di conseguenza, ci pone in una relazione diversa anche con gli appartenenti ad altre religioni. In sintesi, questa prospettiva si basa sul superamento di sentirsi, in quanto cristiani, “eletti”, e quindi privilegiati, rispetto agli altri, perché detentori dell’unica religione che può portare l’uomo alla salvezza, bensì riconoscersi destinatari di un dono che dobbiamo condividere con tutti gli altri. E questo dono è rappresentato proprio dalla pienezza della rivelazione divina in Gesù di Nazaret, il quale ha saputo accogliere nella sua vita la presenza attiva di Dio in maniera assoluta, ponendosi così come modello per tutti gli uomini di fede. Quando Paolo nelle sue lettere afferma che non c’è più differenza tra giudei e greci, tra schiavi e liberi eccetera, indica proprio questa comunanza di prospettiva e di meta finale: tutti siamo chiamati alla pienezza della comunione con Dio e nessuno è escluso da questo progetto salvifico. La metafora dell’ascesa alla “montagna del mistero” da strade e sentieri diversi chiarisce il concetto: tutte le religioni sono impegnate in questa “scalata”, e anche se non tutte riescono nella salita o si trovano a livelli diversi di altezza, nella misura in cui si innalzano si perfezionano e si avvicinano tra di loro. Solo con la consapevolezza di non essere “migliori” degli altri oppure ‘già arrivati’ in cima, ma di far parte anche noi di una cordata che riguarda l’umanità intera, possiamo costruire percorsi umili e autentici di incontro e dialogo».