Le visioni di Marat nel suo album “Le facce”

Intervista alla giovane e promettente cantautrice che guarda il mondo da diversi punti di vista

Marat è molto giovane, ma come cantautrice ha già ricevuto riconoscimenti importanti. Il suo primo album si intitola “Le facce” ed è tutto da scoprire.

Chi è realmente Marat?
«Marat è un modo per
dare al mio progetto un’identità diversa dalla mia, ma che appartiene
sempre a me stessa. Credo sia abbastanza necessario avere una rottura con i cantautori
classici che utilizzavano il loro nomi e cognome originali, poi riportati nel
mondo artistico. È stato un modo per dire “falsiamoci un po’ e costruiamoci una
realtà alternativa per questo progetto”. Gli ho dato un anagramma che riprende
il personaggio storico per dire “forse abbiamo bisogno di cambiare qualcosa, e
di rivoluzionarci, ma i metodi del passato non sono più adatti all’epoca di
oggi”.

Parlaci del tuo album
È il primo EP, ed è nato anche grazie a Luca Bellanova (il tastierista di Jacopo Ratini che mi ha dato una
mano per l’arrangiamento del disco). Ha ascoltato le mie canzoni e mi ha
confermato il fatto che con queste canzoni ci potevo fare qualcosa. Ci abbiamo
lavorato insieme e mi ha suggerito alcune idee. Gradualmente abbiamo iniziato a
registrare “Le Facce”. Il disco racconta di prospettive diverse, la visione della
realtà da diverse angolature raccontata anche da diversi personaggi. Abbiamo
presentato il disco l’uno Febbraio a Le Mura di Roma, e tutti i dischi che
avevamo portato in sala sono stati venduti. Quando l’ho saputo sono rimasta
davvero spiazzata».

La
scrittura che ti caratterizza è allegra e salterella. I tuoi pezzi girano molto bene…


«Per ogni brano prendo quello che è
uscito in maniera spontanea, non c’è prima un pensare e poi uno scrivere. Forse
prima di fare pezzi più impegnati vorrei essere pronta, pronta a parlare di
certe cose. Vedo che si straparla molto, e allora capita che assumi la
posizione di quello anacronistico, che spesso poi non dice un granché. Dal
mio punto di vista non è necessario essere per forza impegnati socialmente o
politicamente.

Pensi di “impegnarti” di più in
futuro?

Si, sai. I prossimi brani che sto
già scrivendo saranno un un’analisi della nostra generazione,
che secondo me è profondamente diversa da quella di prima. L’unico e forse
l’ultimo è stato Pasolini ad indovinare delle cose, ma adesso è difficile
trovare qualcuno che fiuti quello che ha fiutato lui».

La
voce chiara e cristallina si sposa bene con i suoni del disco. C’era un
messaggio particolare che volevi veicolare con le canzoni del tuo album?


«Si, in realtà si. Però io credo una
cosa: la musica non lancia messaggi, il messaggio si insinua un po’
prima della musica; chi sono poi io per lanciare un messaggio?
Grazie alla musica credo che si può dare una visione di qualcosa, la musica non
serve a portare qualcuno dalla propria parte bensì a dire “io guardo questa
situazione così, e guardo in questa direzione”. Se questo modo può essere utile
a chi ascolta, per capire la situazione,
allora va bene. Tu ascolti il modo in cui io ti presento un certa cosa, senza
avere in me una pretesa».


Alcuni
brani del disco sono scherzosi (come anche alcuni suoni) ed hanno un retrogusto
umoristico.

«Le canzoni del disco sono scritte di
getto e sottintendono una mia modalità: parlare delle cose in maniera allegra,
anche se a volte non lo faccio per sdrammatizzare, bensì per contrasto; solo
così capisci la serietà dell’accaduto o del fatto. Come in un gioco di chiaroscuro,
faccio notare di più il chiaro, cosicché le ombre emergano lo stesso, ma come
conseguenza».

Un
punto a tuo favore del disco è che le tracce sono un mix di pop, folk, swing e
jazz. Tutto però rigorosamente cantautorato. A me non piacciono le etichette,
ma tu come ti definisci a livello musicale?

«Io mi definisco
sempre pop-folk cantautoriale. Do sempre una denominazione generica, cosi
l’ascoltatore si può muovere ampiamente dentro le mie canzoni. Non sono una
cantautrice esclusivamente pop, perché credo che lo scopo del pop è un altro,
come ad esempio fare palchi importanti o raggiungere più persone possibili».

Sei
giovane Marat, in futuro talent sì o talent no?


«Nel mio caso non avrebbe nessun
senso andarsi a torturare lì dentro. Io ho bisogno di scrivere, non ho bisogno solo
di cantare e di far sentire il mio timbro vocale. Forse il talent potrebbe
andare bene per un interprete… ma nemmeno li funziona: fai tutto, vinci,
qualcuno ti scrive le canzoni e poi tu fai semplicemente il karaoke, dove
chiunque può vincere dal nulla. Questo non mi appartiene».

Solitudine
sembra quasi una samba, una specie di passo a due. Anche in altri
brani ritorna il tema del legame, come mai ti sta a cuore?

«Nel brano viene descritto il legame
fra me e chi mi sta intorno ed è l’unica canzone che io ho scritto, pensando
veramente e me e ai miei legami, ma non ad un altro nello specifico. Avevo una
specie di “disagio” su quello che mi circondava, volevo cogliere la capacità di
stare bene sullo sfondo».

La
scena dei cantautori emergenti a Roma è molto ampia, cosa ha Marat che gli
altri non hanno?

«Nulla. Se in una stessa serata ci
fossero tre locali uno accanto all’altro, e ognuno di questi contemporaneamente
ospitasse un cantautore e uno dei cantautori fossi io, ascolterei un po’ per
uno, ognuno potrebbe darmi qualcosa di diverso e arricchente allo steso tempo».

condividi su