Roma,
Università Pontificia Salesiana. Con una voce calma, una delle
mie compagne di classe mi confessa che molti dei suoi compagni
d’università non vogliono lavorare con gli stranieri e questi, come
tutti gli esseri umani, avvertono che non sono i benvenuti. L’Università Pontificia Salesiana è un ambiente interculturale, frequentata da persone che hanno provenienze, storie, età diverse.
Dopo
tre anni di studio nella Facoltà di Scienze della Comunicazione, ho
osservato che esiste una divisione, che si esprime sia nella scelta dei posti a
sedere durante le lezione, che nella scelta dei gruppi di lavoro. Per
il mio ultimo semestre, ho deciso di cercarne il motivo e la causa. Perché invece di creare relazioni forti, come dovrebbe essere, ci
allontaniamo gli uni degli altri?
Ci sono ragazzi ottimisti, che vedono il proprio percorso universitario in un
ambiente multiculturale come un’opportunità di spiegarsi e abbattere i
pregiudizi, una opportunità di praticare le lingue straniere con
persone che le parlano come prima lingua. Ogni persona che ho
intervistato, all’inizio descriveva la sua esperienza come molto positiva.
Ma come due facce della moneta, i punti di vista non hanno tardato a
divergere.
Secondo
alcuni studenti italiani, alcuni stranieri giocano sul fatto che non
parlano italiano, e fanno fare tutto il lavoro all’italiano del
gruppo, cosi che anche chi vuole aiutare si sente sovraccarico.
Dicono che è bello lavorare in un gruppo multiculturale, perché
dovrebbe essere un’opportunità di conoscere altre culture, ma
secondo uno degli studenti, gli stranieri dovrebbero impegnarsi di più
per fare conoscere la loro di cultura. Un’altra ragazza sostiene
che per colpa degli studenti stranieri, molte cose vanno a rilento,
che c’è rischio di imparare meno, perché si deve sempre prendere
il tempo a spiegare a questi cosa è stato detto. Questo è forse un
errore dell’università, che nella valutazione della lingua, all’atto dell’iscrizione, non
richiede un livello adeguato. Inoltre, lei dichiara anche che gli studenti
stranieri dovrebbero impegnarsi al massimo, perché nessuno aspetta gli italiani, quando vanno a studiare all’estero, e non vede perché qua da noi invece bisogna sempre aspettare che tutti recuperino.
Secondo
alcuni studenti stranieri invece, c’è chi non sopporta quei lavori
di gruppo, che si rivelano essere spazi in cui gli italiani decidono per tutti. C’è un italiano che si auto-consulta e si
presenta per dichiarare il lavoro già finito. Altri cercano di
capire le ragioni della “lontananza” degli italiani, perché presumono che, vista la
difficoltà della lingua, gli studenti italiani non se la sentono
di affaticarsi spiegando ad uno straniero quello che non ha capito.
Come soluzione, invece, c’è chi propone la creazione dei gruppi di
lavoro seguendo le lingue parlate, motivandolo con la necessità di privilegiare il
fatto che il lavoro venga fatto veramente da tutti i membri, rispetto alla correttezza
della lingua nel momento della presentazione. Infine c’è chi vede
altre difficoltà nei gruppi di lavoro, mettendolo in relazione non alla questione delle
culture, ma piuttosto alla difficoltà di entrare in sintonia, causata da situazioni
diverse e priorità diverse, e alla mancanza di rispetto in confronti
dei compagni del gruppo. problema questo che andrebbe risolto con un po’ di
flessibilità nei rapporti e con rispetto reciproco.
In un
mondo fatto di divisioni, preoccuparsi di una divisione tra i
compagni di studio è quasi una futilità, ma secondo me questa può essere
un’esperienza formativa, che può contribuire ad una evoluzione positiva della
nostra società. Questo contributo dipenderà da come si sono gestite le sfide incontrate in quei piccoli lavori di gruppo. Non
importerà la velocità d’apprendimento, la lingua o il posto, ma
servirà la flessibilità acquisita e il senso del rispetto nei
confronti degli altri, qualsiasi sia la provenienza.