Il Bel Paese è una terra fragile e pericolosa. Alluvioni e frane non sono, purtroppo, una rarità. Balzano spesso in cima alla cronaca drammatiche notizie di disastri ambientali che si verificano nel nostro Paese. L’ultimo di questi il 28 novembre 2020, a Bitti, in Sardegna: un fiume di fango, generato dalle forti piogge, ha devastato il comune del Nuorese, provocando la morte di tre persone e lasciandone 68 senza abitazione.
«L’emergenza è stata straordinaria per questo territorio, ma è stata vissuta in un perfetto gioco di squadra, in sintonia sin dal primo giorno. Questo ha consentito di vedere oggi Bitti in una condizione completamente diversa da ciò che ho visto all’indomani dall’alluvione». Con queste parole si è espresso il capo Dipartimento della Protezione Civile Angelo Borrelli dopo il disastro avvenuto a Bitti, parole che a fatica si possono adattare alla cronistoria italiana. Infatti questi tragici avvenimenti nel nostro territorio sono spesso ciclici. Sette anni fa, il 18 novembre 2013, lo stesso paese di Bitti era stato vittima del ciclone denominato “Cleopatra”, che portò forti temporali con sé. Ci furono 18 vittime nella regione e l’Italia dimostrò anche in quel caso la propria impreparazione di fronte al dissesto idrogeologico.
Qualche settimana prima dell’ultimo evento a Bitti, tra il 2 e il 3 ottobre di quest’anno, nelle province di Cuneo, Vercelli e Verbano-Cusio-Ossola, tra Piemonte e Liguria, piogge intense hanno provocato alluvioni e frane, in cui hanno perso la vita due persone e decine erano rimaste disperse. L’8 agosto, a Messina, per via del maltempo è franata una collina sopra alla strada Panoramica dello Stretto.
La lista potrebbe essere più lunga. Riaffiorano alla mente di ciascuno ricordi di eventi ancor più tragici: l’alluvione del Sarno nel 1998 causò la morte di 160 persone; l’alluvione del 2000 nelle regioni a Nord-Ovest provocò 23 morti e 40mila sfollati; il Bisagno e altri torrenti esondarono e devastarono Genova e le zone limitrofe nel 2014.
Nel caso di Bitti, poca prevenzione è stata fatta nei sette anni intercorsi tra i due eventi. Secondo quanto risulta dal portale OpenCoesione (iniziativa di open government sulle politiche di coesione in Italia, coordinata dal Dipartimento per le Politiche di Coesione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che consente di valutare l’impiego delle risorse), è stato eseguito un solo lavoro di prevenzione degli effetti del dissesto idrogeologico. Ora il Ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha promesso un decreto legge sul dissesto idrogeologico e almeno 20 milioni per il Comune di Bitti.
Difficilmente infatti questi eventi possono essere ricondotti a calamità naturali straordinarie e imprevedibili, ma gli interventi pubblici conclusi sono rari. Sono passati 22 anni dalla tragedia del Sarno e sono stati stanziati 400 milioni di euro per la messa in sicurezza delle zone coinvolte, eppure i fondi sono bloccati per motivi non spiegati. Sono passati più di 90 anni da quando, nel 1928-1929 il Bisagno, a Genova, iniziò a essere interrato per permettere alla città di estendersi. Dopo un’epoca di morti e alluvioni, i lavori sono ancora in corso.
È la storia di un Paese in cui la cementificazione e l’abuso edilizio corrono più veloci della tutela dell’ambiente. L’ultimo rapporto del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) sul consumo di suolo ha rilevato che nell’ultimo anno 57,2 km2 sono passati da superficie naturale a superficie artificiale, coperta da edifici e infrastrutture. Questo dato corrisponde a un consumo medio giornaliero di 16 ettari, vale a dire il verde di 21 campi da calcio al giorno coperto di cemento.
In Italia non solo si costruisce molto, ma si costruisce anche male, o meglio, si costruisce dove non si dovrebbe. Questa noncuranza non si riversa solo sulla natura, ma anche sulla vita di molte persone, che di essa fanno parte. Dai dati ISPRA dell’ultimo rapporto sul dissesto idrogeologico, consultabili anche attraverso il portale interattivo IdroGEO, si riscontra che circa 1,3 milioni di persone vivono in zone a rischio medio e alto di frane e circa 6,3 milioni sono a rischio moderato e alto di alluvioni.
A livello di territorio, sono 7275 i Comuni a rischio frane e alluvioni, cioè il 91,1% del territorio totale. Va tenuto presente che, su una superficie nazionale totale di 302mila km2, il 16,6% del territorio è classificato nelle zone a maggiore pericolosità (cioè 50mila km2). Le zone a rischio frana sono il 19,9% del territorio nazionale (60mila km2). Le aree a rischio idraulico elevato sono il 4,1%, medio l’8,4% e basso il 10,9%. In queste zone sono presenti 14,5 milioni di edifici, quasi 5 milioni di imprese e più di 200mila beni culturali.
Ne esce un quadro complesso, di un territorio estremamente variegato, fragile, trascurato. L’Italia è inoltre una terra senz’altro difficile da gestire, poiché diversificata tra montagne, colline e pianura secondo una distribuzione abbastanza equa, con un sottosuolo argilloso soggetto a facile erosione. È una terra però vittima di deforestazione selvaggia (per far spazio a strutture artificiali di ogni tipo) e cementificazione incontrollata che riduce la permeabilità del suolo e procede a 2 mq al secondo, fenomeni irresponsabili a cui vanno aggiunti gli effetti dei cambiamenti climatici, come le intense precipitazioni in brevi periodi di tempo.
Cosa è stato fatto fino a oggi per preservare il Paese come territorio e come popolazione? Nel 2014 il Governo Renzi aveva istituito ItaliaSicura, un’unità di missione della Presidenza del Consiglio (il cui sito è ancora attivo) avente il compito di mitigare il rischio idrogeologico. La struttura di Italia Sicura riteneva fossero disponibili 7,7 miliardi di euro per intervenire rapidamente dove c’era bisogno. Tuttavia, tre anni dopo la sua istituzione, erano stati spesi soltanto un centinaio di milioni, fallendo così l’obiettivo dichiarato di dare una svolta ai lavori di prevenzione ambientale, uno dei motivi per cui era stato promulgato il decreto Sblocca Italia. Così, nel 2018, il primo Governo Conte ha deciso di chiudere la struttura di Italia Sicura e riportare le competenze in materia di prevenzione del dissesto idrogeologico al Ministero dell’Ambiente. Il Ministro Costa riteneva che bisognasse evitare “ulteriori costi per la finanza pubblica richiesti dalle strutture create ad hoc”. Italia Sicura aveva sbloccato un tesoretto di 2,2 miliardi di euro, bloccati nei bilanci degli enti locali.
Lo stesso Ministro Costa ha elaborato, nel febbraio 2019, un piano anti-dissesto idrogeologico da 9 miliardi totali: 2,6 miliardi per le emergenze, 6,6 miliardi (ma solo 900 milioni ogni triennio) per la messa in sicurezza. Poi il Governo ha presentato invece un nuovo piano per il triennio 2019-2021, denominato “Proteggi Italia”, che dovrebbe stanziare 10,853 miliardi contro il dissesto idrogeologico (più di 3 all’anno) ed è ancora attivo. A fine 2019 però il Ministero dell’Ambiente aveva stanziato soltanto 315 milioni da questo piano (un decimo dei 3 miliardi spendibili nell’anno), mentre il maltempo continua a imperversare sul Paese.
Cambiano i governi, ma non cambiano i risultati: i fondi si bloccano a causa del mostro della burocrazia, di iter tecnici e cavilli infiniti, dell’incapacità dei Comuni di rendere esecutivi i progetti. È stata la Corte dei Conti a spiegare, in un documento del 31 ottobre 2019:«Le risorse effettivamente erogate alle Regioni a partire dal 2017 rappresentano solo il 19,9 per cento dei 100 milioni di euro in dotazione» dal Fondo Progettazione, che dal 2015 serve per progettare le opere pubbliche anti-dissesto. Sembra che Stato e Regioni non riescono a comunicare, quest’ultime non avviano gare e impiegano almeno un anno per revisionare e approvare i progetti. Per questi motivi, presso il Ministero dell’Ambiente, è stata istituita la task force “Strategia Italia”, cabina di regia che, a dire il vero, tanto ricorda “Italia Sicura”.
Infine, è stato presentato il 25 luglio scorso il ddl Green New Deal e transizione ecologica del Paese, collegato ambientale alla legge di Bilancio 2020, che prevede anche, tra i tanti articoli relativi alla tutela ambientale, disposizioni per la mitigazione del dissesto idrogeologico, per il rallentamento del consumo del suolo e procedimenti per la demolizione di opere abusive. Abusivismo e disastri ambientali sono strettamente connessi, ma in Italia si ha quasi più facilità a effettuare condoni edilizi che demolizioni di orrori edilizi. Legambiente, nel dossier del 2017 Ecosistema Rischio sul rischio idrogeologico, certificava che in Italia non si rimuovono gli edifici abusivi:«Sulle delocalizzazioni e la rimozione degli edifici in aree a rischio, gli interventi stentano a partire. Non vengono effettuati neanche quando ci sono fondi a disposizione e le strutture sono abusive», sebbene siano soluzioni importanti contro il rischio di disastri di natura idrogeologica.
Le costruzioni abusive, i rischi e le relazioni: perché era già tutto previsto (via @Corriere) pic.twitter.com/ZbKs0ycKO6
— Luciano Fontana (@lucfontana) November 5, 2018
In sintesi, i progetti non vengono avviati perché lo Stato ha difficoltà a rapportarsi adeguatamente con le Regioni, i cui governatori dal 2014 sono commissari straordinari per il dissesto, e i Comuni, a cui mancano alcune competenze. In più la burocrazia e le normative creano una giungla in cui è difficile districarsi, ma in cui riescono a inserirsi bene le organizzazioni criminali, mentre istituzione e aziende rimangono impantanate.
Ma la storia ha dimostrato che la politica della corsa al rimedio di fronte all’emergenza non funziona né da un punto di vista di salvaguardia di vite umane, né di tutela dell’ambiente, né economico. Già nel 2015, l’ex presidente di Italia Sicura Erasmo D’Angelis aveva stimato che i danni economici dal dopoguerra a oggi, dovuti ai disastri ambientali (considerando anche i terremoti) sono quantificabili in circa 7 miliardi l’anno, per un totale di 448 miliardi di euro. Una somma da far rabbrividire e riflettere, a cui va aggiunta una stima di almeno 200mila morti dall’Unità d’Italia a oggi per gli stessi tragici avvenimenti.
A novembre 2020 invece l’ISPRA, nel rapporto ReNDiS (Repertorio Nazionale degli interventi per la Difesa del Suolo) in cui monitora gli interventi per la mitigazione del rischio idrogeologico, ha valutato che un primo importo necessario per la messa in sicurezza del territorio nazionale ammonterebbe a 26 miliardi di euro. Secondo i dati, negli ultimi 20 anni, ne sono stati stanziati 7 dal Ministero dell’Ambiente.
A oggi, secondo il portale OpenCoesione, risultano pubblicati 6130 progetti che hanno a che fare con il dissesto idrogeologico e 16459 generici per questioni ambientali, di cui il 16% è concluso e l’11% non è neanche avviato. Lo stato attuale dei lavori contro il dissesto può essere controllato da ognuno tramite una mappa realizzata da ISPRA.