Sono arrivati gli aiuti umanitari a Madaya, città siriana a 40 chilometri da Damasco in cui uomini, donne e bambini stavano morendo di fame. Nella giornata di ieri la Croce Rossa e l’Onu, dopo il via libera delle truppe di Assad, hanno inviato medicinali, kit sanitari e cibo bastante per un mese a 35 mila persone vissute sotto assedio da luglio, da quando le truppe governative hanno individuato la città come ponte per due villaggi strategici in mano al fronte dei ribelli. Bambini troppo scheletrici per camminare, uomini e donne a rovistare nella spazzatura, con cani, gatti e altri animali spariti dalla circolazione (troppo preziosa la loro carne). Le strazianti testimonianze di reporter e inviati hanno rappresentato una situazione di vera emergenza umanitaria.
E c’era chi, per sciacallaggio, vendeva un chilo di riso per 250 dollari. Secondo quanto riporta l’Huffington Post, un medico della Syrian American Medical Society (Sams) è riuscito a girare un video in cui chiede ad un bambino da quanti giorni non mangia: “Sette”, risponde il piccolo, a torso nudo, con le costole in evidenza e in difficoltà a mantere l’equilibrio. “Che cosa ti piacerebbe mangiare?” chiede il dottore. “Qualsiasi cosa”. Gli aiuti per fortuna sono arrivati, anche a Foah e Kafraya, due roccaforti ribelli assediate da Assad. Ma le Nazioni Unite ricordano che circa 400mila siriani su 4,5 milioni vivono ancora sotto assedio per opera di tutte le forze in campo.
E’ la fotografia di un Paese in ginocchio entrato nel sesto anno di conflitto. La guerra in Siria ha causato fino ad ora tra 250 e i 300 mila morti e più di 5 milioni di profughi. Tutto ha inizio il 15 marzo 2011, con migliaia di persone spinte da ideali di libertà e con la Primavera araba nel sangue, scese in piazza ad Aleppo e Damasco per protestare contro il regime del presidente Bashar al-Assad, che per tutta risposta ordina all’esercito di sparare sulla folla. Musulmano sciita, Assad è capo dello stato dal 2000, ma governa un Paese a maggioranza sunnita (87% della popolazione): la reazione alle proteste è solo la goccia che fa traboccare un vaso pieno di vecchi rancori e situazioni irrisolte, così il paese implode in una guerra civile. Un gruppo di ufficiali siriani decide di disertare, proclamando la nascita dell’Esercito Libero Siriano (Free Syrian Army, FSA), fronte a cui pochi mesi dopo si aggiungono ribelli moderati che arrivano da tutte le parti del Paese, ma anche i fondamentalisti sunniti di Al-Nusra, branca siriana di Al-Qaida e lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, comunemente conosciuto come Isis.
Nel frattempo, dopo due anni e mezzo di guerra, nel 2014 si mobilita anche l’opinione pubblica internazionale: Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Turchia si schierano a supporto dei ribelli moderati, mentre Russia, Cina, Iran e Venezuela appoggiano Al-Assad. Tutti sono contro l’Isis, ma lo stato islamico intanto conquista sempre più territorio e si erge a baluardo dell’estremismo sunnita in Medio Oriente, scalzando la posizione di rilievo che negli ultimi anni (dopo l’11 settembre in particolare) aveva sempre avuto Al Qaeda, con mire espansionistiche anche al di fuori del Paese. A partire dal settembre 2014 una coalizione guidata dagli Stati Uniti inizia a bombardare i territori della Siria occupati dall’Isis, mentre nel calderone siriano finiscono anche gli altri Paesi del Medio Oriente: Arabia Saudita, Oman e le altre monarchie sunnite del Golfo appoggiano e finanziano i ribelli, stati come l’Iran e gruppi religiosi come gli Hezbollah (sciiti) sostengono il governo di Assad.
Il resto è storia recente: i curdi arginano e indeboliscono l’Isis al confine con la Turchia e solo il 18 dicembre 2015 il Consiglio di sicurezza dell’Onu approva all’unanimità una risoluzione sul processo di pace in Siria, che porterà nel giro di 18 mesi a un progressivo cessate il fuoco tra governo e alcune forze ribelli (estremisti esclusi) e a nuove elezioni. Decisione arrivata 4 anni e mezzo dopo l’inizio della guerra civile. L’Occidente pare aver deciso, ma la guerra intanto continua e i morti aumentano di giorno in giorno. Domani potrebbe esserci già un’altra Madaya, un’altra emergenza umanitaria.