Don Diego Conforzi è sacerdote da quindici anni e parroco della chiesa di Sant’Ugo di Roma da sei. Durante il suo cammino ha sempre intrapreso esperienze missionarie. Giunto nella nuova realtà di Sant’Ugo, trova terreno fertile per continuare a farle anche insieme ad altri. Infatti, da una decina di anni la parrocchia, con altre di Roma, effettua missioni per aiutare un piccolo villaggio in Mozambico. In questa intervista Don Diego ci condurce alla conoscenza di in un paese fortemente segnato dalla povertà e dallo sfruttamento, ma in cui si possono scorgere segni di forte solidarietà, volontà di riscatto e speranza.
Secondo lei, che cos’è la povertà?
La povertà è una condizione di disagio e di sofferenza. Ritengo che spesso sia un po’ stigmatizzata perché la povertà oggi non è solo da intendere in senso materiale, ma anche in senso morale e spirituale. La definirei come tutto ciò che ci fa sentire lontani da una condizione di dignità e di benessere interiore.
Qualche anno fa è andato in Mozambico per aiutare la popolazione, in particolare i bambini. Ci parli di questa esperienza.
Insieme alle altre vicine, la nostra parrocchia sostiene un asilo di un villaggio nel sud del Mozambico, quasi al confine con lo Swaziland. Si chiama Goba ed è situato nella diocesi di Maputo, nel distretto di Mafuiane che è il villaggio di riferimento. Ci occupiamo in particolare dell’asilo perché cerchiamo di intervenire nella formazione dei bambini sotto ogni punto di vista. Sostenendo lo sviluppo dei bambini, entriamo in relazione anche con le loro famiglie, porgendo loro aiuto.
Perché proprio in Mozambico?
Abbiamo avuto l’occasione di collaborare con questa parrocchia vicina che viveva da più di trent’anni questa esperienza missionaria concreta. Un appello di papa Woytyla spinse la parrocchia in questione a intraprendere la missione in Mozambico che, all’epoca, era uno dei paesi più colpiti dalla guerra civile e dalle sue conseguenze, oltre che dall’estrema povertà.
Ci racconti di qualche episodio che le è rimasto impresso.
In primo luogo, vorrei raccontare di una sensazione che sperimento quando arrivo in questo paese e che, credo, sottolinei la differenza tra la loro cultura e la nostra. Noi occidentali conduciamo un ritmo di vita abbastanza frenetico e scandito da una serie di tappe tendenzialmente da rispettare nel nostro programma giornaliero. In Mozambico mi trovo a lavorare a una velocità diversa rispetto alla realtà che mi circonda. Ciò mi porta a un sano momento di spaesamento in cui rifletto sulla ‘disumanità’ (esaspero un po’ la faccenda…) di questi tempi accelerati che portiamo avanti in virtù di una continua efficienza. Invece lì i ritmi sono più a portata umana, molto più lenti dei nostri.
Una bella esperienza che non dimenticherò mai è stata quando una mattina un ragazzo della parrocchia ha portato una bambina appena nata dalla vicina casa delle suore con cui collaboriamo. Una famiglia del luogo, già povera e con tanti figli, ha adottato la bambina e l’ha inserita nel loro nucleo in modo molto naturale. Per quella famiglia, accogliere la bambina è stata una benedizione. Questo episodio è un esempio di come l’arrivo di una nuova vita debba considerarsi motivo di gioia perchè intesa come dono di Dio. Probabilmente in Africa ci sono meno vincoli per adottare un figlio rispetto al nostro mondo occidentale, però c’è stata una risposta umana bellissima: non è una decisione scontata accogliere un/a figlio/a quando si versa in condizioni di povertà.
Quali sono stati gli interventi che lei e la sua parrocchia avete realizzato per migliorare la situazione?
Cerchiamo di gestire una quota annuale per sostenere le spese relative al cibo, all’asilo dei bambini e allo stipendio dei maestri. Un punto fondamentale della nostra missione è coinvolgere le persone del luogo dal punto di vista lavorativo e garantire loro una formazione, un elemento non scontato per chi in Africa intraprende la carriera dell’insegnamento. Ovviamente, ciò è anche un’occasione di lavoro per loro e, conseguentemente, di sostegno per le loro famiglie.
Secondo lei, quindi, fornire cibo, abiti, strumenti ai bambini, può servire anche nel lungo periodo per costruire un domani migliore?
Certamente. Il rapporto che si cerca di instaurare non è quello di dipendenza. Al contrario, si prova a creare le condizioni per aiutare le famiglie e i bambini, che in futuro diventeranno adulti, affinché siano responsabili e protagonisti del loro futuro. Il Mozambico eredita una condizione di colonialismo che, almeno nelle vecchie generazioni, a volte condiziona un po’ l’approccio con gli occidentali, chiedendo loro solo sussidiarietà e assistenzialismo. Con le nuove generazioni è più facile sbloccare questi meccanismi. Abbiamo tentato di orientare il percorso di vita dei più giovani verso questo orizzonte, aiutando anche quelle persone che ritenevamo più valide a essere incluse nel mondo lavorativo e accompagnandone altre a entrare in questa logica.
Secondo lei, quali sono gli interventi principali che la comunità internazionale dovrebbe fare per aiutare questo paese?
Avendo uno sguardo su tutta l’Africa, potrei dire che laddove ci sono risorse spesso c’è uno sfruttamento e, quindi, la popolazione viene inserita in una condizione voluta di povertà. Ci sono pochissimi ricchi e tantissimi poveri, dove spesso i ricchi sono governanti o intermediari che, intessendo rapporti con gli stessi governanti o con le nazioni interessate, gestiscono tali risorse. Di conseguenza anche il Mozambico è coinvolto in questa situazione perché ha delle materie prime importanti. Il primo passo per aiutare i mozambicani (e in generale gli africani) ad uscire da questa condizione di assoggettamento sarebbe metterli a conoscenza dei beni che possiedono.
Pensa di ripartire in futuro per una nuova esperienza dello stesso genere? Sempre in Mozambico o in altri Stati?
La mia parrocchia ed io torniamo periodicamente in Mozambico per portare avanti questa missione. Proprio recentemente siamo stati nuovamente in questo paese.