Pensate per un attimo
di essere giovani ragazze rapite.
Non
vorreste forse che, per prima cosa, in attesa della vostra
liberazione tutto il mondo sapesse chi siete? Questo aspetto è stato
invece completamente ignorato dai media.
Se
la campagna lanciata viralmente sul web contro il loro rapimento,
denominata su twitter con l’hashtag #bringbackourgirls, ha fatto il
giro del mondo, lo stesso non si può dire della verità legata a
questo tragico rapimento.
I
principali quotidiani ne hanno parlato in ritardo, sollecitati più
dal web che dalle notizie ufficiali dello stato nigeriano. La notizia
è sempre stata accompagnata da una foto, divenuta simbolo della
lotta ai rapitori, che ritrae una ragazza, in primissimo piano, in
lacrime. Peccato che quella foto non abbia niente a che fare con i
fatti.
E’lo
stesso fotografo Ami Vitale, autore della fotografia suddetta,
a spiegare i fatti in un’intervista al New York Times: «La
foto che ha fatto il giro del web, associata alla campagna virale
#bringbackourgirls, non ha niente a che vedere con questa vicenda, ma
fa parte di un altro progetto a lungo termine», spiega il fotografo.
Le
foto infatti appartenevano ad un’altra vicenda, e ritraggono ragazze
della Guinea Bissau, non della Nigeria.
«Sono
tre le fotografie che sono state prese dal mio progetto, o dal sito
dell’Alexia Foundation, e 1qualcuno ha reso queste immagini il volto
della loro campagna. Io supporto questa campagna, completamente, e
non ho niente in contrario in materia di copyright», continua il
fotografo, «ma questa situazione mi fa riflettere sul ruolo dei
social media, sul loro potere. E’ un altro discorso, si tratta di una
rappresentazione falsata della realtà.Queste foto non hanno niente a
che vedere con le ragazze rapite. Potete immaginarvi lo sconforto
delle famiglie della Guinea che hanno visto le loro figlie come
immagini simbolo di traffico sessuale e rapimento. Conosco queste
ragazze della Guinea, le loro famiglie,ho vissuto con loro. Quelle
foto dovevano rappresentare l’aspetto umano dei conflitti, ed invece
sono state strumentalizzate per ritrarre le ragazze vittime di
rapimento come, appunto, ennesime vittime».
Non
esiste una via di mezzo per rappresentare l’Africa, per noi
occidentali. O
pensiamo ai safari, alle bellissime terre inesplorate, agli animali
esotici, alla grandezza di leoni e gazzelle, oppure abbiamo bisogno
di vedere bambini denutriti e fanciulle che piangono nella guerra.
Come se l’Africa non avesse una via di mezzo, un territorio neutro,
almeno nell’immaginario collettivo, che la ritrae per come veramente
è.
Dovremmo
imparare a decolonizzare anche il nostro immaginario,
per citare Serge Latouche, e ricercare la verità. Apriamo gli occhi.
Non
è possibile che una storia, per essere nota, debba sempre reagire a
canoni di spettacolarizzazione, non può essere importante solo per
le emozioni che suscita in noi. Trovare un modo etico per raccontare
le vicende è un dovere per i media attuali, troppo spesso attorniati
da interessi politici a noi poco chiari.
Per
quanto riguarda il famoso hashtag, la tentazione è quella di
affidare il cambiamento di questa situazione soltanto a Twitter. Ma
il nostro share sul web, con link condivisi, tweet e mi piace, non
sarà la molla che farà cambiare idea ai rapitori: il rischio è
quello di condurre una protesta “social chic”, perchè fa moda
mostrarsi solidali, senza poi prendere effettivamente coscienza della
situazione. Condividiamo pure, ma con spitito critico.
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