Di fronte al presepe si è colpiti non tanto dal racconto, noto a chiunque, ma dai narratori, dal vedere come si sono ingegnati a rendere i personaggi in scena e a ricreare l’ambiente. È per questo che, a Natale, si vanno a visitare volentieri i presepi, benché non siano opere d’arte: per farci fare un’infiltrazione di fede. Ci si carica sia della fede dei pastori che di quella dei presepisti, cioè di coloro che hanno perso tempo a pensare e a realizzare i presepi. Pur sapendo che alle spalle hanno sempre qualcuno – spesso un familiare – a dire: «A me ’o presepio nun me piace» (vedi Natale in casa Cupiello, di Eduardo de Filippo). Insomma un bastiancontrario, pronto a eccepire su tutto: «Non può essere che ci siano così poche luci (in alternativa: così poche case, così poche strade, così poche piante, così poche grotte, così poche pecore ecc.)». Col presepe scatta l’horror vacui, il terrore del vuoto, che lo condanna a essere stracolmo.
Ma va bene così: lavorando in campo lungo, il presepe ha bisogno di mettere dentro mille cose, persino goffe e sproporzionate, pur di far capire che la Natività non è l’istantanea del momento in cui Gesù viene al mondo, ma una storia che viene da lontano e arriva fino a oggi. Inoltre il presepe vuole dare l’immagine della fiducia che muove i pastori e i Magi verso Gesù… fiducia che – come ha detto papa Francesco – è un movimento verso, non un credere da seduti in poltrona.
Tuttavia, nonostante l’abbondanza di presenze, anche ai presepi manca qualcosa. Anzi, manca qualcuno: i presepi difettano di angeli. E quei pochi che ci sono – confinati sopra la grotta – si limitano a fare da strilloni della buona notizia, tenendo in mano dei cartigli («Vi annuncio una grande gioia», «È nato per voi un salvatore», «Gloria a Dio nell’alto dei cieli»…).
L’avorio di Salerno è in controtendenza: gli angeli sono ad altezza d’uomo e di donna. Ce n’è uno per ogni pastore, a dire come l’annuncio vada personalizzato, chiamando l’altro per nome e cercando le parole più adatte per lui. Gli angeli sanno che, di Dio, è meglio parlare a tu per tu: non rivolti all’umanità globale, ma all’umanità dei singoli, diversa da persona a persona.