Non si nasce coraggiosi. Ma insieme lo si diventa

La storia di Suor Maria Elena Berini, che ha ricevuto il premio internazionale Donne di Coraggio

Classe 1944, missionaria in Africa dal 1972, per 35 anni in Ciad e da 11 anni nella Repubblica Centrafricana. Suor Maria Elena Berini delle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret è stata premiata da Melania Trump con il premio internazionale Donne di Coraggio.

Un riconoscimento che è dato ogni anno dal Dipartimento di Stato Americano nella sede di Washington a 10 donne scelte in tutto il mondo. Suor Maria Elena è stata candidata dall’ambasciata Americana presso la Santa Sede per il suo impegno e coraggio, dimostrato in questi anni durante la guerra nella Repubblica Centroafricana.

 

Nata a Sondrio, a 19 anni entra nella sua congregazione. Ha insegnato per 3 anni in una scuola a Sanremo. Nonostante fosse contenta e pensasse che amando questi bambini stava facendo molto, si faceva sempre una domanda: «posso fare qualcosa di più?» Suor Maria Elena ci racconta, che «lì è nato il mio desiderio di andare in Africa, perché vedevo che in Africa c’era bisogno. Non tanto di aiuti materiali, ma c’era bisogno di amore e di tenerezza. »

Il suo lavoro e quello della sua congregazione in questo paese martoriato è soprattutto nell’ambito dell’educazione, della pastorale e della formazione delle donne e delle ragazze. Ci spiega che «a Bocaranga, nella missione dove sono io, abbiamo una scuola con 1300 scolari, dalla scuola materna al liceo. Cerchiamo di inculcare loro soprattutto il rispetto dell’altro, l’accoglienza, l’andare al dì là del proprio gruppo etnico. Mettere semi di speranza nel cuore di questi giovani, che sono il futuro della Repubblica Centroafricana, perché il 50% della popolazione è costituita da giovani al dì sotto dei 18 anni».

Con tanta passione nelle sue parole e nei suoi occhi, Suor Maria Elena prosegue dicendo che «se vogliamo oggi ad aiutare l’Africa – e le Suore della Carità l’hanno capito – bisogna educare, istruire, creare cultura, creare luoghi di ritrovo per questi giovani, altrimenti in gran parte sono arruolati dai ribelli».

 

Nella Repubblica Centroafricana, secondo le Nazioni Unite, ci sono 12,000 bambini soldato, la maggior parte dei quali non ha mai frequentato la scuola. «Persone analfabete, che siossono manipolare facilmente. Mettono loro in mano un fucile, e quando un bambino, un giovane ha in mano un fucile, pensa che può fare tutto».

La guerra in questo paese è iniziata nel 2013, quando i ribelli Seleka hanno preso possesso del Paese. La suora ci spiega che «la guerra in Centroafrica è una guerra puramente economica e non una guerra tra musulmani e cristiani. Una guerra di potere per il controllo delle zone ricche.». Per combattere il gruppo dei ribelli si è formato un altro gruppo che si chiama Anti Balaka. Il 21 gennaio del 2014 gli Anti Balaka sono riusciti a cacciare parte dei ribelli dal Paese. Suor Maria Elena racconta che, quando i ribelli scappavano, «abbiamo cominciato a sentire sparare forte. Ci siamo alzati subito da tavola, abiamo chiuso porte e finestre, le giovani suore sono andate con le ragazze all’educandato (avevamo 26 ragazze). I ribelli sono arrivati, hanno attaccato la missione dei padri Cappuccini, dove hanno ucciso delle persone: c’erano un migliaio di persone accolte da loro. Da noi c’erano nella scuola più di 600 persone. I ribelli hanno scavalcato il nostro cancello, volevano aprire la porta. Ho detto alle suore: vado ad aprire. Quando ho aperto, mi sono trovata davanti un Sudanese, alto, pieno di pallottole, che ha cominciato a spararmi per terra».

Oltre ai soldi i ribelli cercavano anche la suora originaria del Centroafrica, che «era chiusa in camera… Èintervenuta la Provvidenza, la suora era nascosta sottoil letto, proprio nell’angolo, e non sono entrati».

Le suore potevano comunicare con i padri Cappuccini ed anche con i loro superiori in Italia grazie al fatto che i ribelli non hanno sparato alle antenne ed anche grazie alla prontezza di Suor Maria Elena, che aveva buttato un cellulare nel cestino della spazzatura. Prima di partire dalla loro casa uno dei ribelli «si è girato verso di me e mi ha detto: ti uccido. Io l’ho guardato, ma senza paura. Non lo so in quel momento chi mi ha dato la forza, ho detto “uccidimi, sono qui!” Ho sbattuto la porta con un colpo di piede e poi sono partiti».

 

Le suore non avevano avuto neanche il tempo di riprendersi, quando un altro gruppo di ribelli è arrivato. Per fortuna, questo gruppo non aveva intenzione di rubare o fare del male. Con le lacrime agli occhi e molto commossa Suor Maria Elena racconta che «sulla macchina c’erano due feriti, uno alla testa e l’altro al ginocchio, non li dimenticherò mai. Mi sono avvicinata, ho cercato di accarezzarli, poi ho chiesto: “voi che nazionalità siete?” Uno di loro ha risposto: “siamo centroafricani”. L’ho guardato bene ed ho detto, e tu fai questo al tuo Paese?”».

Dopo questo episodio, la tensione è rimasta molto alta: “Noi dormivamo vestite con il nostro zaino, pronte a scappare. Il 2 febbraio del 2014 la situazione era troppo pericolosa e la comunità delle suore si è rifugiata, con la gente, per tutta la giornata nella savana. Nel presente si vive ancora nell’incertezza: qualche volta i ribelli ancora attaccano i villaggi.»

 

La missione delle Suore della Carità durante questo tempo difficile e d’incertezza ha continuato le proprie attività e adesso aiuta le persone che hanno perso tutto. «Un missionario non può lasciare la sua gente nei momenti difficili. Viviamo con loro la gioia, ma dobbiamo vivere anche le difficoltà, le sofferenze, e abbiamo cercato di testimoniare loro questo attraverso la nostra presenza.»

Quando Suor Maria Elena ha ricevuto la notizia che è stata candidata per questo premio internazionale, pensava che fosse uno scherzo. Dopo un mese e mezzo è arrivata la conferma e si è chiesta «che cosa ho fatto di speciale per ricevere questo premio?” Durante la cerimonia, quando la first lady americana Melania Trump le ha consegnato il premio, lei ha pensato «questo premio lo ricevo per il popolo Centroafricano, che ha sofferto, che è stato coraggioso, che continua ad essere coraggioso. Lo ricevo a nome della mia congregazione, perché mi ha formata alla responsabilità, al coraggio e lo ricevo soprattutto per la mia comunità, perché se ho potuto vivere ed aiutare tutti questi rifugiati lo devo alla mia comunità. Insieme abbiamo fatto questo lavoro, insieme siamo donne coraggiose.»

Il mondo di oggi, aggiunge la suora, ha bisogno di gesti concreti di amore e fraternità. «Non si nasce coraggiosi», il coraggio è quando si affrontano le difficoltà e le situazioni. Suor Maria Elena conclude che desidera continuare a vivere la sua missione con «amore intenso».

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