Dal
25 al 30 di novembre 2015, Papa Francesco ha visitato il continente africano
recandosi in Kenya, Uganda e repubblica Centrafricana. L’Africa, continente
verde, è cristiano cattolico, ricco in valori umani e in risorse naturali. Per
sua ricchezza, l’Africa è terreno di guerra, di democrazia quasi mancata. Il Kenya
è minacciato dai gruppi terroristi Al Shabab che hanno ucciso 147 studenti
cristiani il 9 aprile 2015 nel campus
universitario di Garissa. L’Uganda, paese dei martiri, conosce una stabilità
relativa e sta cercando la democrazia, mentre la Repubblica Centrafricana è
immersa in una guerra tra fratelli cristiani e musulmani.
All’arrivo in Kenya, il papa,
messaggero di pace per l’Africa, firma nel libro d’oro: “May Almighty
God abundantly bless the Republic of Kenya and grant peace and joy to all her
children”. Augura la pace e la gioia ai figli della nazione. Difensore della
giustizia sociale, il papa chiama le
autorità keniote ad “operare con integrità e trasparenza per il bene
comune e a promuovere uno spirito di solidarietà a ogni livello della società.” Davanti alla povertà del continente, il papa
chiede i leader di “dimostrare una genuina preoccupazione per i bisogni dei
poveri, per le aspirazioni dei giovani e per una giusta distribuzione delle
risorse umane e naturali con le quali il Creatore ha benedetto il vostro Paese”.
Così
pianterà un albero in “segno eloquente di speranza nel futuro e di fiducia nella
crescita donata da Dio sostenervi negli sforzi di coltivare una società
solidale, giusta e pacifica sul suolo di questo Paese e in tutto il grande
Continente africano”. Le autorità delle Nazioni Unite a Nairobi trovino in
quest’albero uno stimolo “a continuare ad avere fiducia, a sperare e
soprattutto a impegnarci concretamente per trasformare tutte le situazioni d’ingiustizia
e di degrado”.
In
un paese ferito dall’uccisione dei ragazzi, perché non sono musulmani, il papa
non mancherà di affermare che “il dialogo ecumenico e interreligioso non è un
lusso. Non è qualcosa di aggiuntivo o di opzionale, ma è essenziale, è
qualcosa di cui il nostro mondo, ferito da conflitti e divisioni, ha sempre più
bisogno”. Dio è padre di tutti. “Il suo santo Nome non deve mai essere usato
per giustificare l’odio e la violenza”.
Il
Kenya
è un paese in cui crescono le città, ma anche le periferie. Il papa chiama i
leader a lavorare per l’integrazione sociale di tutti. Si rivolge ai poveri del quartiere di Kangemi e li
incoraggia: “Sono qui perché voglio che sappiate che le vostre gioie e
speranze, le vostre angosce e i vostri dolori non mi sono indifferenti. Conosco
le difficoltà che incontrate giorno per giorno! Come possiamo non denunciare le
ingiustizie subite?”. Nel suo viaggio ritorno, lascerà queste parole : “Ho sentito il dolore. E penso a come la
gente non se ne accorge… Un grande dolore.”
In Uganda, il papa ha
trovato una grande folla gioiosa, fedele alla devozione ai martiri. Nella messa
celebrata al Santuario dei Martiri Ugandesi di Namugongo, il papa chiama il popolo ugandese a
imitare i loro fratelli martiri, in quanto la loro testimonianza “offre
uno scopo alla vita in questo mondo e ci aiuta a raggiungere i bisognosi, a
cooperare con gli altri per il bene comune e a costruire una società più
giusta, che promuova la dignità umana, senza escludere nessuno, che difenda la
vita, dono di Dio, e protegga le meraviglie della natura, il creato, la nostra
casa comune.” Ai
ragazzi ugandesi disperati,che hanno avuto
l’opportunità si intrattenersi con il santo Padre, e a tutti giovani africani il
Papa Francesco dirà: “ Sempre si può! La nostra vita è come un seme: per vivere
occorre morire; e morire a volte fisicamente, come è successo ai compagni di
Emmanuel. Morire come sono morti Carlo Lwanga e i martiri dell’Uganda. Ma
attraverso questa morte c’è una vita, una vita per tutti. Se io trasformo il
negativo in positivo, sono un trionfatore.” Il suo invito è riassunto in tre
parole. “La prima: superare le difficoltà. La seconda: trasformare il negativo
in positivo. La terza: preghiera.”
Nella Repubblica Centrafricana, Papa
Francesco non manca di esprimere direttamente il motivo del suo viaggi: “Vengo come pellegrino di pace, e mi
presento come apostolo di speranza”. Nel suo messaggio, invita i fratelli
in guerra a riconoscere la dignità in ognuno di loro.“Ogni persona ha una dignità.” “È proprio
questo valore morale, sinonimo di onestà, di lealtà, di grazia e di onore, che
caratterizza gli uomini e le donne consapevoli dei loro diritti come dei loro
doveri e che li porta al rispetto reciproco”. Chiama quelli che hanno i mezzi
a prendersi cura dei poveri, chiede ai leader di assicurare “l’accesso all’istruzione
e all’assistenza sanitaria, la lotta contro la malnutrizione e la lotta per
garantire a tutti un’abitazione decente dovrebbe essere al primo posto di uno
sviluppo attento alla dignità umana”.
Poiché è un Paese
in guerra, il Papa ha visitato un campo di
profughi e, come messaggero di speranza, ha augura a tutti i centrafricani la
pace, una grande pace: “Che voi possiate vivere in pace qualunque sia
l’etnia, la cultura, la religione, lo stato sociale. Ma tutti in pace! Tutti!
Perché tutti siamo fratelli. Mi piacerebbe che tutti dicessimo insieme: Tutti
siamo fratelli”.
Nella sua omelia, il Santo Padre si è rivolto a tutti quelli
che usano ingiustamente le armi di questo mondo: “deponete questi strumenti di
morte; armatevi piuttosto della giustizia, dell’amore e della misericordia,
autentiche garanzie di pace.” Pertanto si rivolgerà ai musulmani che visiterà
nella Moschea Centrale di Koudoukou,
Bangui: “Tra cristiani e musulmani siamo fratelli. Dobbiamo dunque
considerarci come tali, comportarci come tali”. Un messaggio ancora di ribadire
perché all’indomani della visita del papa, un musulmano sarà ucciso davanti
alla moschea a Bangui.
La gioia è stata immensa in
Africa, nei paesi visitati. La folla, il popolo ha visto
il Papa, lo ha sentito. La fede ne uscirà confermata. Questo sentimento è
condiviso dal Papa che, nel suo viaggio ritorno ha affermato: “Si sentono visitati.
Hanno un senso dell’accoglienza molto grande. Ho visto, nelle tre Nazioni, che
avevano questo senso dell’accoglienza, perché erano felici di sentirsi visitati”.