“Più
ti guardo e meno lo capisco / da che posto vieni / forse sono stati
tanti posti / tutti da straniera / chi ti ha fatto gli occhi e quelle
gambe / ci sapeva fare / chi ti ha dato tutta la dolcezza / ti voleva
bene”.
Così cantava Ligabue nel brano Ci sei sempre stata (2010).
Evidentemente
il protagonista del pezzo cerca di capirci qualcosa sulla ragazza che
sta ammirando e – in mancanza di altro – procede per
argomentazione “a posteriori”. Sono le gambe e gli occhi, è la
sua dolcezza a far intuire qualcosa del posto da cui proviene, della natura del suo artefice. Se ha occhi e gambe stupendi
chi l’ha fatta doveva conoscere e possedere la bellezza, per la
dolcezza vale lo stesso ragionamento.
È
dalla considerazione delle caratteristiche dell’effetto – la
ragazza – che il protagonista ricava qualcosa della causa – di chi
quella ragazza l’ha fatta.
In
poche parole, si parte dall’osservazione: sono i sensi – e la
vista in primis – che ci permettono di risalire a qualsiasi altro
tipo di conoscenza di portata universale. Come diceva quel tale?
Vedere per credere: la vista, il tangibile al centro di ogni cosa.
Questa
è l’argomentazione “a posteriori”. Si tratta del genere di
dimostrazione più gettonata ai giorni nostri: l’altra tipologia,
quella “a priori” è caduta in disuso, mentre era la principale
al tempo degli antichi filosofi greci. Chi avrebbe oggi, infatti,
la presunzione di affermare qualcosa di valido assolutamente e
universalmente per poi ricavarne un assunto particolare?
Già
san Tommaso – nel bel mezzo del Medioevo – scriveva: “l’essere
di Dio può essere provato con cinque vie. La prima e più manifesta
via è quella che è desunta dal movimento. È certo, infatti, ed è
constatato dai sensi, che in questo mondo alcune cose si muovono.
Tutto ciò che si muove, però, è mosso da altro. […] Dunque è
necessario arrivare a un primo movente, che non sia mosso da nessuno;
e tutti capiscono che questo è Dio”.
Cosa tentava di dimostrare con questo desueto e meccanico linguaggio
l’Aquinate nella sua Summa? Tentava proprio una
dimostrazione “a posteriori” sull’esistenza di Dio. Di quelle
che partono considerando gli effetti particolari per poi risalire
alla causa universale che li ha prodotti.
Le
canzoni di Ligabue sono piene straripanti di occhi e di gente che si
guarda in giro per capire qualcosa del mondo assurdo in cui si trova
a vivere.
“Ho
visto belle donne / spesso da lontano […] e ho visto da vicino /
chi c’era da vedere / e ho visto che l’amore / cambia il modo di
guardare” (Atto di Fede, 2010). Il brano continua fino alla
fine su questo tono: è tutto un vedere cose e persone, avvenimenti e
fattacci. É solo dalla vista che “tutto [viene] scritto / ed è
qui dentro / e viene tutto via con me”.
E se la vista scrive,
allora vuol dire che là fuori c’è qualcosa di cui si può
scrivere, qualcosa dotato di una sua consistenza, di un suo essere.
È
sempre e soltanto la vista il punto di partenza, ma mai quello
d’arrivo. È così che dal sensibile si toccano corde che lo
travalicano. É così che la vista ci apre a un orizzonte più vasto:
sono tanti i pezzi, ma – dentro di noi – vanno sempre a formare “un
mosaico solo”.
Dal
frammentario all’unità. Dai sensi esterni a quelli interni. Dal
particolare all’universale. Dal vedere la vita a darle un assenso,
un atto di fede di portata extrasensibile. Dalla considerazione
dell’effetto sensibile alla consapevolezza di una causa
metempirica, che trascende le cose materiali.
In
Siamo chi siamo la storia è sempre un po’ quella: si passa
dal considerare che “siamo chi siamo / siamo arrivati qui come
eravamo” a dedurre che se – in mezzo a tutte quelle strade e quegli
incroci – alla fine ci troviamo a scegliere una certa traiettoria,
deve essere perché “qualcuno ci avrà messi lì”. Perché siamo
fatti per un percorso particolare e unico, che risponde al nostro più
profondo essere.
Di
nuovo da una considerazione sensibile ne ricaviamo una metasensibile
e torniamo con nuova consapevolezza a guardare al di fuori di noi.
Gli
occhi, sempre quelli, che non sono più semplice strumento per
ammirare un tramonto, fissare un cane o adocchiare un pezzo di
formaggio, ma riescono a travalicare quel tramonto, quel cane o quel
formaggio e ad accumulare una serie di verità dalla portata
metempirica.
Non
sono più “gli occhi distratti del mondo”, ma macigni di
attenzione, che filtrano la realtà e tessono nel nostro cuore tutta
una rete di relazioni e corrispondenze.