10 Mag 2015

Per raccontare bene la famiglia bisogna metterla in crisi

Da Aristotele alle fiabe classiche, gli autori ci insegnano che ci coinvolgiamo - con il cuore e con la ragione - nelle storie che parlano dei nostri problemi e delle difficoltà che viviamo per raggiungere i nostri obiettivi

«Dobbiamo
raccontare in modo che faccia bell’effetto. Che faccia voglia di avere
una famiglia».
Ma è difficile perché raccontare, telling,
richiede una capacità dello scrittore nell’attirare l’attenzione
del pubblico dei lettori. Senza dubbio quello che rende interessante
un racconto non è la monotonia, l’essere uguale, «ma proprio
l’essere diverso», cioè il realismo coniugato con la creatività. Durante un recente dibattito che si è svolto nella facoltà di Scienze della Comunicazione della Pontificia Università Salesiana, un’interessante riflessione sul tema del raccontare la famiglia è stata proposta da Paolo Restuccia, regista Rai, esperto di scrittura creativa e docente dell’UPS.

Papa
Francesco nella sua grande saggezza ha scelto quest’anno, come tema della Giornata delle Comunicazioni socili 2015, “Comunicare
la famiglia: ambiente privilegiato dell’incontro nella gratuità
dell’amore”
«un tema molto interessante, ma molto difficile per farci una lezione
di family telling, ha affermato il professor Paolo Restuccia.
Evidentemente un tema difficile da narrare, non soltanto per ragioni
sociali legate ai tempi e al degrado dei costumi, perché il degrado dei
costumi c’è stato sempre. Sembra però che oggi, «la
situazione sia più complicata, perché esiste un movimento
culturale, che tende a smontare la famiglia tradizionale e a sostenere
altre forme di famiglia».

In
effetti, raccontare non è questione di effetti speciali, ma questione
di voce, di cervello e di cuore, perché quello che rende interessante
una narrazione è la capacità di «creare
immagine con le nostre parole». 
Ordinariamente, «non tutti i racconti sono fatti vissuti. Si
può narrare anche solamente quello che si osserva.
Grandi
scrittori hanno narrato le ultime ore di persone che morivano e il
pubblico ha apprezzato, ha creduto che è andata proprio così.
Dunque, raccontare la famiglia oggi richiede un’arte che «faccia
voglia di avere una famiglia» e
certamente non è un’impresa facile.

Di
solito, «tutte
le favole finiscono
con “e vissero tutti felici e contenti”: raccontano situazioni problematiche, ma appena
il principe e la principessa si sposano, la favola finisce.
Nessuno, mai, fa una favola in cui i protagonisti sono sposati e, fateci
caso, quando in una favola ci sono protagonisti sposi fin dall’inizio,
subito lei muore. “C’era un regina che amava tanto e che morì
lasciando una figlia”…».
Quasi tutte le favole hanno questo schema, a cominciare da Biancaneve.

Questo modo di strutturare
i racconti riflette la stessa idea che il mondo ha della famiglia o
della famiglia che si può raccontare: la difficoltà nella
realtà di avere una famiglia felice.

In
genere «se
dovete ricordare una storia, ricorderete la parte difficile, la parte
delle difficoltà», ha ricordato Restuccia, «per esempio “Il canto di Natale” di Dickens: tutti sanno che cos’è successo al
povero Scrooge, tutti conoscono proprio la figura di Scrooge e nel nostro
immaginario, non si depositeranno tanto le cose buone dopo che è cambiato, quanto le cose cattive».
In realtà, «il nostro immaginario non si ricorda delle cose buone,
ma le parte cattive del racconto».

Raccontare
dunque è «creare qualche cosa a cui teniamo e poi metterlo in
difficoltà».

Quindi «non è difficile raccontare. Bisogna capire
solo una cosa: il bene di una famiglia felice è qualcosa da
conquistare, come ci insegnano fiabe».

Però «c’è qualche cosa di etico in questo. Le nostre vite sono difficili;
l’esistenza sulla terra è complicata. Vivere significa affrontare
continuamente terribili prove. Non possiamo permettere ai nostri
personaggi inventati di vivere meglio di noi. Non possiamo dare loro
una vita più facile che quello che facciamo noi. Perciò l’unico
modo di raccontare qualche cosa è di metterlo in crisi», sostiene ancora Restuccia.

Se
raccontare è un’arte, è importante avere anche una metodologia.
Secondo
il Restruccia, la struttura drammaturgica è composta di tre
atti, secondo il modello che viene dell’antica greca di Aristotele. Nel
primo atto c’è un personaggio che sale su un albero. Nel secondo
atto, il personaggio è sulla cima dell’albero e lo scrittore gli
tira dei sassi. Nel terzo atto il personaggio scende dell’albero.
Se scende vivo è una commedia, se scende morto, è una tragedia.

Fuor di metafora, “salire sull’albero” significa avere un obiettivo, ad esempio nel
primo atto Romeo e Giulietta, protagonisti di un’opera
importante di Shakespeare vogliono sposarsi; nel secondo atto “salgono sull’albero”, soprattutto
quando Giulietta capisce che questo Romeo è uno della famiglia
nemica della sua; nel terzo atto muoiono tutti due. Dunque è un dramma.

Nel secondo atto, lo sceneggiatore comincia a tirare ai personaggi sassi via via più grandi, cioè a creare personaggi situazioni difficili.

Narrare
partendo delle difficoltà non significa esagerare
fino ad essere
aggressivi, ossessivo o violenti. Ma «la narrazione ci dà la
possibilità di raccontare la verità attraverso “la bugia”.
Qualche cosa che non è mai successo, diventa vero. È il gran
mistero della narrazione. Noi leggiamo con grande piacere delle
storie mai accadute, dei personaggi ma esistiti». A volte le storie
dei personaggi veri non ci interessano, non le leggiamo.
In
breve, «Aristotele dice che la narrazione è l’unica cosa che
tiene insieme il pensiero e l’emozione, che vanno oltre la realtà,
perché la realtà comporta troppi punti morti, che non possiamo
rendere interessanti. Mentre invece nel narrare, noi possiamo dare
qualcosa di più. La narrazione generalmente permette di
mettere insieme l’emozione dell’avvenimento e il pensiero pensato
durante l’avvenimento. Cosa che nella vita vera è difficile da fare».

Si può dire che narrare, è sapere osservare profondamente la realtà
attorno a noi e dentro di noi e con coraggio dare nome alle
difficoltà presenti nell’esistenza umana.

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