Nel 2019 ormai alle porte arriverà su Netflix Freud, la nuova serie tv in lingua tedesca ispirata alla vita del giovane Sigmund, impegnato a catturare un serial killer nella Vienna del XIX secolo. Così, anche il colosso dello streaming, acquisendo i diritti di distribuzione, ha deciso di puntare su Freud, probabilmente in vista dell’ottantesimo anniversario della sua morte. Il padre della psicoanalisi, infatti, non ha mai smesso di esercitare il suo grande fascino sulla cultura di massa, soprattutto in ambito cinematografico.
Cinema e psicoanalisi, due discipline coetanee (nascono alla fine del XIX sec.) e spesso complementari, il cui rapporto non è di certo una novità in ambito specialistico (se ne cominciò a parlare già negli anni ’50). Tante, infatti, le pellicole che citano o che hanno per protagonista Freud e che si ispirano, direttamente o indirettamente, a temi psicoanalitici.
Uno dei registi che privilegiò la dimensione psicoanalitica in buona parte dei suoi film fu, senza dubbio, A. Hitchcock, il cui universo tematico si rifà ad alcune intuizioni freudiane (il senso di colpa, la doppia personalità, il complesso di Edipo ecc.). Un cinema soggettivo che si esplicita, in particolar modo, in Psycho (1960), il maggiore successo di pubblico di Hitchcock, a cui W. Hesling dell’Università di Lovanio (Belgio) ha dedicato un’approfondita analisi psicoanalitica (Classical Cinema and The Spectator, 1987). Nel suo saggio, infatti, mette a confronto il capolavoro del regista britannico con una delle più rilevanti intuizioni teoriche che C. Metz, semiologo e critico cinematografico francese, ha elaborato nel suo libro Le Signifiant imaginaire: psychanalyse et cinéma (1977), attenta analisi del linguaggio del cinema dal punto di vista psicoanalitico.
In particolare, Hesling si domanda in che misura Psycho, come sistema testuale filmico, può confermare gli studi di Metz che indagano la “posizione” dello spettatore in relazione al film.
Questo particolare aspetto del suo lavoro – ci spiega Hesling – viene per lo più approfondito nella seconda parte de Le Signifiant imaginaire, dal titolo Histoire/Discours (Note sur deux voyeurismes). Qui il semiologo francese, grazie all’insegnamento dello psicoanalista J. Lacan e del linguista E. Benveniste, si orienta verso una teoria della soggettività, la quale è alla base della sua indagine. Così, Metz ha fatto sua non solo la teoria dell’enunciazione elaborata da Benveniste, ma anche la distinzione che il linguista fa tra storia, intesa come “contenuto impersonale” e discorso, ossia l’atto comunicativo che segna la presenza del narratore.
E qui entriamo nel vivo della tematica, poiché è stato proprio Metz ad aver definito l’enunciazione filmica nel quadro psicoanalitico del voyeurismo (Cf. F. MARANO, Camera etnografica: storie e teorie di antropologia visuale, 2007).
Andare al cinema significa assistere. Scrive a questo proposito Metz: «Guardando il film lo aiuto a nascere, a vivere, perché è in me che vivrà. […] Il film è esibizionista, e nello stesso tempo non lo è. […] Lo guardo, ma lui non mi guarda mentre lo guardo. Tuttavia, sa che io lo guardo. Ma non vuole saperlo. È questa negazione fondamentale ad aver orientato tutto il cinema classico sulla via della “storia”».
Risulta evidente, allora, come il voyeurismo dello spettatore abbia a che fare sia con l’esperienza “del buco della serratura”, sia con la fase primordiale dello specchio, da cui differisce in un punto essenziale. Secondo J. Lacan, infatti, lo stadio dello specchio è il momento in cui il bambino in braccio alla madre si vede riflesso “come un altro e a fianco ad un altro”. Questo determina la formazione dell’Io.
Il film da una parte è simile allo specchio primordiale, in quanto lo spettatore, così come il bambino, è in uno stato di “sotto-motricità e sovra-percezione”, mentre dall’altra differisce da esso perché sullo schermo scompare il riflesso del proprio corpo. Pertanto, precisa Metz, «ciò che rende possibile l’assenza dello spettatore sullo schermo è il fatto che lo spettatore ha già conosciuto l’esperienza dello specchio (di quello vero)».
Qui non si tratta, quindi, dell’identificazione dello spettatore, che è “immobile e silenzioso”, con i personaggi del film (identificazione secondaria), ma dell’identificazione con “se stesso come sguardo”.
Torniamo ora ad Hesling e all’analisi psicoanalitica di Psycho (1960), film che si colloca tra il cinema classico e quello moderno. L’autore ci mostra come questa pellicola dedichi all’esperienza del guardare e dell’essere guardati un trattamento completo. Infatti, Psycho può essere considerato uno dei film sul voyeurismo per eccellenza (insieme a La finestra sul cortile del 1954).
Questa scopofilia è particolarmente emblematica nella scena in cui Norman guarda Marion, mentre si spoglia, attraverso il buco nel muro. È evidente, inoltre, un atteggiamento voyeuristico non solo da parte di tutti i personaggi del film (Sam, Lila, il detective, il poliziotto, lo sceriffo e lo psichiatra), ma anche da parte della cinecamera (ad esempio, il movimento della macchina da presa sulle scale del motel di Norman).
Tuttavia, questo regime voyeuristico si spezza quando lo spettatore assume il punto di vista di un personaggio, cioè quando nel film vengono inserite le inquadrature soggettive. Quest’ultime, accompagnate alle oggettive, creano il massimo di identificazione e partecipazione dello spettatore ai sentimenti del personaggio. Basti pensare, ad esempio, all’alternanza di oggettive e soggettive che caratterizzano la scena dell’incontro di Marion con il poliziotto (Cf. G. RONDOLINO – D. TOMASI, Manuale del film. Linguaggio, racconto, analisi, 2018).
Dopo aver tracciato il sistema testuale di Psycho, Hesling fa un chiaro riferimento al processo della sutura, concetto lacaniano ripreso da J.P. Oudart, con cui «lo spettatore è inscritto nel testo visivo sotto la forma di un’assenza» (MARANO, Camera etnografica). Un meccanismo interessante che mostra, tramite la tecnica del campo-controcampo, «come il possesso di uno spazio da parte dello spettatore sia illusorio, in quanto egli può solo vedere ciò che viene rappresentato sull’asse visuale di un altro spettatore, quello assente del controcampo» (A. MISCUGLIO – R. DAOPOULO Edd., Kinomata. La donna nel cinema, 1993).
In Psycho più volte il processo della sutura viene chiaramente interrotto. Basti pensare alle scene in cui lo spettatore si relaziona con un solo personaggio per diverso tempo (Marion che si prepara a partire) o alle sequenze di inquadrature in cui un punto di vista viene totalmente omesso (ad esempio quello di Marion quando si trova a cena con Norman). Hesling conclude, così, la sua analisi sostenendo che «un film non può essere etichettato completamente come “storia” o come “discorso”». Infatti, Psycho affascina e coinvolge il pubblico, nonostante i numerosi momenti in cui il film sconvolge e “riposiziona” lo spettatore.
Un approccio interessante che si potrebbe estendere anche al cinema postmoderno, il quale ha ereditato da quello classico “il coinvolgimento dello spettatore, soprattutto sul piano dei sensi”.