La comunicazione può separare,
anziché unire. Può creare muri, invece di favorire la costruzione di ponti. Può
seminare parole d’odio invece di aiutare due o più controparti a instaurare un
dialogo. Di tutto questo si è parlato sabato 8 aprile all’Università Pontificia
Salesiana di Roma, in un corso di formazione per giornalisti dal titolo “Quando
l’informazione crea conflitto”, organizzato dalla Facoltà di Scienze della
Comunicazione dell’ateneo e dall’UCSI, l’Unione Cattolica della Stampa
Italiana.
«I media sono responsabili
dell’aumento di devianza e di trasgressione nella nostra società – ha spiegato Mario
Marcellini, presidente della Conferenza nazionale di Scienze della
Comunicazione e commissario Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni – perché certa informazione modifica la percezione della realtà,
aumentando la nostra paura e aumentando i nostri conflitti». Nel rapporto tra
informazione e immigrazione questo aspetto è evidente: il fenomeno migratorio,
associato alla mancanza di sicurezza e alla criminalità, è rappresentato dai
media italiani come un enorme problema da risolvere. «Non c’è da stupirsi che i
nostri concittadini credano che il 30% della popolazione sia composta da
stranieri, mentre essi risultano, dalle statistiche ufficiali, essere solo il
5,3%» ha raccontato Morcellini.
Dopo di lui, Renato
Butera, docente di Etica e deontologia dei media all’UPS, ha parlato dell’importanza,
per un operatore della comunicazione, di un approccio etico personale e
professionale che tenga conto del bene del pubblico e dell’intera
società.
Importanti, quando si parla di informazione che crea il conflitto,
sono anche altri aspetti: l’informazione politica ad esempio, o l’hate speech
(discorsi d’odio) e le fake news (notizie false). I docenti di giornalismo dell’UPS
Vittorio Sammarco e Paola Springhetti hanno analizzato questo legame tra
informazione, odio e post-verità. La bufala, ad esempio, si basa su un
pregiudizio o su un sentimento di rancore e lo rilancia. Nasce da un conflitto
e lo amplifica, attraverso argomenti falsi. Chi crea e diffonde queste non-notizie
ha il chiaro interesse di manipolare l’opinione pubblica, favorendo quel
crescente aumento di rabbia e intolleranza che si trasforma poi in parole d’odio e che Morcellini ha definito come «un
imbarbarimento della nostra cultura». Discorsi d’odio e manipolazioni nelle
fotografie è stato l’argomento affrontato dal professor Tommaso Sardelli, intervenuto
in un videomessaggio, che nella Facoltà di Scienze della Comunicazione insegna
proprio teoria e tecniche dell’immagine.
Da qui, la necessità di
un giornalismo di pace che diventi una solida e forte alternativa all’informazione
che crea il conflitto. Peter Gonsalves, docente di Comunicazione ed Educazione,
nel suo intervento è partito dagli insegnamenti di Galtung e di Jake Lynch,
spiegando come l’unica via percorribile per un’informazione corretta sia quella
che sposta l’attenzione sulle cause del conflitto e le fa comprendere al
pubblico, che non racconta solamente la lotta tra due fazioni opposte (quasi
come in una partita di calcio) ma che dà voce alle vittime proponendo soluzioni
per il superamento di tale conflitto.
Una costruzione della pace che ha molto a
che fare con l’esempio di Papa Francesco, raccontato da Vania De Luca, presidente
UCSI e vaticanista di Rai News 24. «Il papa stesso si fa pontifex, cioè “ponte” – ha raccontato la De Luca – non a caso nel
suo storytelling c’è questo continuo andare verso la periferia, fisica ed
esistenziale, e verso le isole. Ha aperto la prima porta Santa nella Repubblica
Centrafricana a Bangui, ha fatto il suo primo viaggio da Papa a Lampedusa». Non
c’è da stupirsi quindi se nella sua prima esortazione apostolica, l’Evangeli
Gaudium, Francesco affronta proprio il tema del conflitto e di come esso si può
superare. Questo passaggio sembra essere stato scritto proprio per giornalisti
e operatori della comunicazione:
«Il
conflitto non può essere ignorato o dissimulato – scrive Francesco a pagina
101 – dev’essere accettato. Ma se
rimaniamo intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si
limitano e la realtà stessa resta frammentata. […] Di
fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se
nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri
entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono
l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e
insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il
più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. E’ accettare di sopportare il
conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo
processo. Beati gli operatori di pace»