Lo
sanno anche i bambini che, per dare vita a un prodotto, la pubblicità cerca di
aggiungergli un’anima. Che non deve essere buona per forza. Lo sanno anche i
bambini che si può essere notati di più con una trasgressione (difatti alcuni
di loro, davanti al fotografo, fanno le boccacce o le corna).
Così, una quindicina d’anni fa, una campagna della Pepsi Cola cominciò
a utilizzare dei testimonial negativi,
con lo slogan «Colpevole di Pepsi».
Presentando di volta in volta un caso umano, dall’individuo difficilmente omologabile al soggetto refrattario alle regole, e avvolgendoli tutti in un’unica luce: quella delle vittime
bollate ingiustamente. Un’altra pubblicità dello stesso periodo, quella del
gelato Solero, si avvaleva di tipacci – un po’ meno ideologizzati ma sempre
tipacci – sotto la scritta «Zero gradi
mentali».
Negli
ultimi anni persino la moda infantile ha saccheggiato loghi e linguaggio del mondo della
devianza: dagli zainetti con la A di Anarchia (e parole come “rebel” e “radical”)
alle t-shirt con la scritta «Se la mamma dice no… lo chiedo alla nonna».
Finché è successo un fatto che ha messo in crisi la tendenza: con i disordini
dell’agosto 2011 in Inghilterra, un capo d’abbigliamento tranquillo – la felpa
col cappuccio – è diventato funzionale ad azioni fortemente trasgressive. Da allora, se l’abito fa il
monaco, la felpa col cappuccio fa il ribelle.
Così, per
avvisare di non far parte di quelli che rompono, rubano, devastano ecc., c’è
chi è ricorso alla stampa – sulla felpa – di una scritta del tipo «Non sono un sovversivo». Scoprendo, con Maksim Gor’kij,
che «le più belle parole di tutto il
vocabolario sono “non colpevole”».