30 Set 2014

Rifugiamoci nell’arte. Non per soldi, ma per amore

In piena crisi ci sentiamo dire: "investire nell'arte è sicuro". Ma è la nostra umanità, non l'economia, a determinare il valore delle opere

«Investire nell’arte è
sicuro», si sente affermare in tempo di piena crisi. «L’arte è sicurezza, bene
rifugio nell’incertezza generale».

Paradossale paradosso: l’arte
sinonimo di stabilità? In che tempo, in che luogo, un artista ha mai potuto
sperare di sentirsi dire simili parole, allorché decideva di investire il suo
futuro in questa disciplina all’unanimità amata e ammirata, eppure tanto
incostante e crudele vero i suoi pochi, fedeli adepti?

Straordinaria affermazione:
secondo quali materialistici criteri varrebbe la pena di investire su di
un’opera d’arte? Per quale logica utilitaristica un pezzo di tela macchiata è
da considerarsi un buon investimento? Più di una casa in qualche rinomato centro
storico? Più di azioni di prestigiose aziende quotate in borsa? Persino più dei
titoli di Stato?

Certamente i criteri
pratici per valutare
un’opera d’arte non mancano: bisogna considerare
dimensioni e materiale, la produzione – più o meno vasta – dell’artista,
l’artista stesso, se si ostini ancora a rimanere in vita o sia già morto, così
da permettere di poter ulteriormente valutare il quadro. Il soggetto, poi, se
sia tipico o meno; l’epoca in cui l’artista ha realizzato il dipinto.

Basta, però, che l’opera
sia di qualche grande artista, che già questi criteri vengono sconvolti, e tutto
è da ricalibrare.

In fondo non si tratta che
di criteri accessori e superficiali, ma non condizione necessaria, né
sufficiente a motivare il valore che è insito in un’opera d’arte. La quale contiene
in sé tutta una serie di valori intrinsecamente legati a ogni essere umano; e
da ogni essere umano evidentemente riconosciuti – più o meno consapevolmente –
se nei secoli un’opera d’arte mantiene il suo valore e va, anzi, ad aumentarlo
col tempo.

Se così non fosse, se il
valore di un’opera d’arte
fosse del tutto arbitrario, allora lo si sarebbe
potuto stabilire per una qualsiasi altra cosa che non fosse un’opera d’arte. Si
sarebbe attanagliati dal costante timore di un improvviso tracollo dei prezzi.

La moneta ha un valore
riconosciuto valido universalmente oramai quasi solo per convenzione – partendo
comunque dal valore di per sé riconosciuto ai metalli con cui vengono
realizzati -, ma un’opera d’arte? Quale
convenzione ne sancisce il prezzo? Quali criteri il valore?

Eppure – nonostante non mi
risulti che sia mai esistito un qualche trattato internazionale firmato a
Tokyo, a Ginevra, o in qualche altra bella e prestigiosa città, per stabilire
il prezzo di un quadro –  si tratta di criteri universalmente riconosciuti;
altrimenti i nostri pratici, validi economisti, si sognerebbero di definirlo un
“bene rifugio”.

Altrimenti non avremmo tanti industriali e magnati della finanza,
sceicchi, stilisti e imprenditori del lusso che decidono di investirvi.
Così, tra le nuove star del collezionismo, ecco l’imprenditrice messicana
della birra Maria Asuncion Aramburuzabala,
i profumieri Florence e Daniel Guerlain, il finanziere cinese Liu Yiqian e sua moglie WangWei e l’uomo d’affari ucraino Victor Pinchuk.

Evidentemente non è
l’economia a determinare
cosa abbia valore e cosa non lo abbia; e in che
gerarchia organizzare ciò a cui sia stato dimostrare un certo pregio:
l’economia prende da una realtà già esistente al di fuori di sé oggetti dotati
di valore – secondo altri criteri ad essa del tutto estranei e sconosciuti – e
quantifica questo valore in termini di moneta. La moneta, insomma, quantifica
diversi ordini di beni, non solamente quelli materiali.

Cosa ci affanniamo,
allora, a ricercare le nostre regole
di vita nell’economia? Perché perdiamo il
fiato e la vita per correrle dietro? Non rischiamo, a volte, di correre dietro
un fantasma?

L’economia è molto
semplicemente una scienza che parte da un presupposto già stabilito, che non
ha alcuna possibilità di mettere in discussione : “posto che si debba
ricercare la ricchezza…”.

A questo punto, “posto che
si debba cercare la ricchezza”, una logica puramente economica – guardandosi
intorno, in una realtà di per sé già esistente  – capisce che un quadro vale un
bel mucchio di soldi: un quadro, un oggetto che non risponde in alcun mondo ai
criteri che oramai utilizziamo – almeno apparentemente, almeno a chiacchiere – per dirigere la nostra vita.

Non è l’economia che fa la
nostra vita, siamo noi che facciamo, che determiniamo l’economia.

È la nostra umanità a dare
valore alle cose
: è il riconoscere che un’opera d’arte contiene in sé certi
valori tipicamente umani in cui tutti ci riconosciamo, anche senza esserne
consapevoli.

Ed è così che ci si ritrova
con grandi aziende – che si occupano solo di cose molto utili, molto pratiche – che acquistano vecchie e polverose opere d’arte per garantirsi qualche sicurezza
in più, una certa stabilità. Per avere qualche garanzia. Certo, col rischio di
arrivare a sopravvalutare certi artisti contemporanei, perché guidati da una
smania puramente finanziaria.

Ma le bolle, prima o poi, scoppiano, lo
scontiamo ogni giorno sulla nostra pelle da anni. Da quel famigerato 15
settembre 2008.

Eccolo il valore dell’arte.
Non è poi così inestimabile, né incalcolabile – o, almeno, non del tutto. E,
a quanto pare, ritorna sempre, non tradisce chi vi pone fiducia a lungo
termine. Perché non provare a investirci un po’? Perché non investire su di
noi? Su ciò che ci fa venire voglia di continuare a vivere?

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