05 Apr 2014

Se mi apri, ti porto una preghiera

L'uomo che non vede i figli da anni, il bambino che vorrebbe salvare la nonna, la donna incinta che chiede una preghiera speciale... Ecco il racconto di un sacerdote che bussa alle case della periferia di Roma

Roma est. Estrema periferia della capitale. Qui sorge la Parrocchia
di santa Maria Josefa del Cuore di Gesù. Una moderna struttura voluta
dal beato Giovanni Paolo II per il giubileo del 2000. Varcando
l’ingresso della Chiesa ti meravigli della grande luminosità e di tutte
quelle piante e quei fiori. Un senso di bellezza e cura sembra
avvolgerti. Solo che qualche metro prima non è così. I due chilometri
percorsi dalla Prenestina alla parrocchia consegnano un panorama
contraddittorio. È un quartiere a zone: le case popolari, i plessi
residenziali costruiti dalle cooperative, le villette dove si è
insediata una comunità di marchigiani. Un po’ ovunque domina la
sporcizia e in certi punti il degrado è evidente. «Padre Andrea, che ci
vuoi fare, qui è sempre peggio», mi ripete ancora una volta Gerardo, un
ottantenne con un forte accento napoletano.

Questo sabato sono arrivato un po’ prima,  perché il parroco, padre Angelo De Caro,
mi ha chiesto di iniziare la visita alle famiglie per portare la
benedizione pasquale: «Vedrai, quasi tutti aprono la porta. Desiderano
questo incontro, lo aspettano». Sarò accompagnato da Fiorenzo, un
suo collaboratore. Anche lui abita in via don Primo Mazzolari, in uno
dei tanti plessi delle case popolari. Durante il breve tragitto mi
prepara alle possibili situazioni. «Vivono lì più di sessanta famiglie…
Molti uomini sono agli arresti domiciliari… Tanti appartamenti sono
stati occupati abusivamente». Secondo la mia guida non vale la pena
venire qui. A dire il vero quasi tutti ci apriranno. Molti con
sentimenti positivi di accoglienza. Non mancheranno comunque le
sorprese.

Iniziamo dal piano superiore. Il primo incontro
è con una coppia di sordomuti. Appena vedono la stola e il secchiello
dell’acqua santa i loro occhi si illuminano. Sono elettrizzati. Mi fanno
vedere tutti gli oggetti sacri che hanno nel loro appartamento ben
curato. Mi servo di un foglio di carta per scrivere un messaggio e
chiedere per che cosa o per chi vogliono pregare. «Il Signore deve
aiutare tutti!» appuntano a grandi caratteri.
Percorrendo il corridoio incrociamo due ragazzetti con il pallone. Appena capiscono che ci
incamminiamo
verso l’appartamento della nonna ritornano verso di noi: «Abitiamo
qui!». Dentro c’è anche la loro mamma. Mi spiega che sono di Tivoli, un
paese qui vicino. Ci raccogliamo nella sala da pranzo e scambiamo
qualche parola. Improvvisamente il fratello più piccolo dice: «Io voglio
fare il medico, voglio guarire tutti gli ammalati!». Allora la nonna lo
avvicina a sé e lo bacia sulla fronte. «Tra qualche mese»,ci dirà
qualche minuto dopo la figlia sull’uscio di casa, «la nonna subirà un
delicato intervento chirurgico».

Verso le 17 suoniamo a un portone malandato. Ci apre una giovane donna. Entriamo nell’appartamento.
Le pareti sono piuttosto spoglie, pochissimi anche i mobili. Lei è
magrissima, lo sguardo spento. Quando preghiamo ha le mani giunte e le
stringe forte. Dopo l’aspersione mi guarda e sorride e dice: «Grazie!». Scendiamo al piano terra. Nel cortile c’è un grande via vai di ragazzi e bambini. Qualcuno al nostro passaggio saluta, altri sghignazzano di gusto. Qualche cane più in là abbaia. Per
la prima volta a rispondere alla porta è un uomo straniero, carnagione
scura. Con garbo declina la nostra proposta: è mussulmano. Invece ci
apre un uomo sulla quarantina. Si scusa per il disordine. È tornato solo
da qualche ora dal carcere. Ha avuto gli arresti domiciliari per motivi
di salute. Prima del rito alza repentinamente la manica del maglione e
ci mostra un tatuaggi una rosa con le iniziali dei suoi figli. È da due
anni che non si sentono.

Visitiamo ancora una quindicina di abitazioni.
L’ultimo incontro è particolarmente emozionante. È una giovane coppia.
Superato un iniziale imbarazzo – non si aspettavano la visita – mi
chiedono una benedizione speciale. Carla mi mostra il suo pancione, tra
due mesi partorirà una femminuccia. Ci diamo tutti la mano e insieme
diciamo un’Ave Maria per tutte le donne in gravidanza.

Ormai è buio, è ora di rientrare.
Risalendo verso la Chiesa ho un breve scambio di opinioni con Fiorenzo.
Una cosa colpisce entrambi. In quei pochi minuti molte persone si sono
aperte a condivisioni sincere. Spesso nel momento della preghiera i loro
volti sono cambiati. Personalmente ho rivisto a tratti quella stessa
luce che mi accoglie quando ogni sabato entro nella Chiesa di santa
Maria Josefa.

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