Che cosa ha a che fare l’ebola con la pesca industriale? E cosa c’entrano le balene con i diritti umani?
Ci riferiamo a Seaspiracy (crasi per sea, mare, e conspiracy, cospirazione), uno degli ultimi prodotti Netflix, diretto dal filmmaker Ali Tabrizi. L’argomento principale è l’impatto che la pesca produce sull’ecosistema, passando per diritti umani, la sostenibilità, il cambiamento climatico, la plastica nel mare … e molto altro.
Le reazioni al documentario sono state tra le più disparate: forse qualcuno non porterà più alcun prodotto ittico sulla sua tavola per qualche settimana (un po’ come quando abbiamo rinunciato al cellulare per un paio di ore dopo aver visto The Social Dilemma), altri si sono premurati di “accusare” il documentario di essere eccessivamente superficiale e inesatto.
Il documentario va inserito all’interno della “scatola Netflix”. Non si tratta infatti del primo prodotto di questo tipo (Cowspiracy, What the Health, The Social Dilemma). Si può dire che questo tipo di produzioni abbiano in qualche modo modificato l’essenza stessa del concetto di documentario. Ricco di suspense (non sono rare le volte in cui il regista e protagonista Ali ci ricorda che è per lui rischioso girare determinate scene, si procura microcamere o gli viene chiesto di spegnere la telecamera di fronte ad interviste compromettenti), presenta novanta minuti di shock ad alta intensità.
Seaspiracy ha di lodevole il fatto che “scosta la tenda” dell’opinione mediatica su un problema, appunto, abissale: l’insostenibilità dell’industria della pesca dal punto di vista ambientale, sanitario, sociale, climatico… Se serve un documentario per aprire il dibattito in merito, ben venga.
La principale critica, invece, è che Seaspiracy non abbia alcuna intenzione di andare in profondità, ma che abbia come obiettivo solo quello di voler scuotere lo spettatore, a discapito della scientificità di ciò che si sta vedendo. Queste accuse sono state mosse sia dalle Ong ed “etichette di sostenibilità” accusate nel documentario, che dagli esperti protagonisti delle interviste del regista, i quali hanno accusato i produttori di fare “affermazioni fuorvianti” e di “usare interviste fuori contesto e statistiche errate”.
Ecco i passaggi chiave del documentario:
La pesca intensiva e la pesca accessoria
Il documentario si apre con la voce fuori campo di Ali Tabrizi, filmmaker ventisettenne affascinato dall’ecosistema marino fin da quando è bambino. Le memorie d’infanzia vengono spazzate via quando la BBC riporta che il Giappone conferma di voler riaprire la caccia commerciale alle balene.
Ed è qui che parte il viaggio di Ali verso Taiji, Giappone, per documentare la pesca dei delfini. Qui, in pieno stile di giornalista investigativo, viene a conoscenza del fatto che questi mammiferi vengono uccisi in quanto “colpevoli” di essere concorrenti all’uomo nella pesca intensiva al tonno rosso, ridotto ormai al 3% della specie causa del suo valore di mercato estremamente alto. A Mitsubischi, Ali viene a conoscenza anche della mattanza di squali, spinnati per produrre insapori zuppe, che profumano di irreparabile squilibrio di ecosistemi marini delicatissimi.
Qui Ali racconta allo spettatore che il 40% del pescato viene definito “pesca accessoria“, pescato che finisce per sbaglio nelle reti e che di conseguenza resta inutilizzato o sprecato. Spesso le pesche accidentali vengono ributtate in mare, ma le percentuali di sopravvivenza sono praticamente nulle. Per quanto riguarda gli squali, si parla di 50 milioni di esemplari vittime della pesca acessoria, uccisi, dunque, per “nessuno scopo”. La stessa cosa accade per i delfini.
I marchi fasulli
Il documentario passa poi ad indagare riguardo i marchi che dovrebbero garantire l’eticità del pescato. Essenzialmente Ali ci spiega come questi siano inutili a causa dell’impossibilità di controlli che ne possano garantire la validità. Alcuni marchi posti sotto accusa sono Dolphin Safe e Marine Stewardship Council, finanziati dalle stesse industrie della pesca. Quasi suscita ilarità l’intervista a Mark J. Palmer dell’Earth Island Institute il quale, alla richiesta di spiegazioni al riguardo, continua a contraddirsi e a dare risposte l’una il contrario dell’altra. Un’intervista che risponde bene alla necessità di rinforzare le tesi di Ali.
La plastica e le reti da pesca
Il documentario passa poi ad illustrare il dato che il 46% della plastica presente negli oceani non abbia nulla a che fare con le famose cannucce che finirebbero nelle narici delle tartarughe, ma che sia piuttosto di provenienza proprio dalle reti da pesca.
Omicidi, schiavitù e diritti umani
La pesca, poi, non va a infierire solo sull’ecosistema marino, ma anche sui diritti umani. In primo luogo perché è compromessa la sicurezza di coloro che vigilano al riguardo. Succede, ad esempio, che gli osservatori governativi incaricati di controllare le attività di pesca, vengono uccisi sulle navi e gettati fuori bordo, come nel caso di Keith Davis. Ali racconta che in Papua Nuova Guinea sono scomparsi 18 osservatori in 5 anni. Nelle Filippine, nel 2015, Gerlie Alpajora è stata minacciata da una famiglia di pescatori e successivamente assassinata. Follow the money è il filo rosso che guida Ali, ma spesso questo filo rosso porta ad interessi economici importanti, anche più delle persone e dell’ecosistema.
Inoltre il documentario pone in evidenza come la pesca intensiva non sia eticamente corretta perché spesso i pescherecci vengono dalle zone ricche del mondo e svuotano i mari di zone in cui le persone vivono di pesca di sussistenza. Di qui la necessità di queste popolazioni di spostarsi alla caccia della fauna terrestre con conseguenze come l’ebola.
Il documentario si sofferma anche sulle condizioni di schiavitù alle quali molte persone sono costrette, ad esempio, in Thailandia. Gli uomini vengono costretti ad imbarcarsi per poter avere manodopera ad un costo praticamente irrisorio.
Esiste la pesca sostenibile? L’itticultura.
Come ricerca di una risposta alla possibile esistenza di una forma di pesca sostenibile, Ali si sofferma sugli allevamenti ittici intensivi. Potrebbero avere un impatto minore sull’ecosistema dei mari? No, visto che i pesci degli allevamenti vengono nutriti con quelli pescati negli oceani. E le condizioni di vita dei salmoni in questi allevamenti sono tutt’altro che sostenibili. Ammassati in spazi piccolissimi, vivono ricoperti da parassiti. Nulla a che fare con il roseo salmone che finisce sulle nostre tavole, rosa (ci spiega Ali) a causa dei mangimi che gli vengono forniti (senza questi resterebbe grigio).
La discussione etica viene portata infine sul tema dell’apertura/chiusura con il raconto della Grindadrap, l’uccisione delle balene per la sussistenza delle persone nelle isole Faoer. Quale sia il confine etico della pesca sostenibile o meno resta il grande punto di domanda, mentre sullo schermo scorrono immagini con fiumi di sangue che colorano l’acqua in cui fino a poco prima le balene nuotavano. Se sia più accettabile uccidere un pollo o una balena Ali alla fine non lo dice. All’interno del documentario, infatti, viene fatto un riferimento all’eticità, per quanto riguarda il valore della vita, comparando la morte di una balena rispetto alla morte di un pollo. Questo viene fatto da uno degli uomini che sopravvivono grazie alla caccia alle balene, e dunque si viene nuovamente a instaurare la dialettica che sorregge tutto il documentario, ovvero la sostenibilità o meno della pesca.
Smettere di mangiare pesce è la soluzione?
Si stima che stiamo pescando fino a 2,7 bilioni di pesci all’anno, l’equivalente di 5 milioni di pesci ogni minuto. Al di là del documentario, sarebbe perciò utile una riflessione sul modo in cui l’uomo si approccia ai mari e al pescato. Da un punto di vista etico e ambientale, è possibile continuare a consumare pesce? Tabrizi crede proprio di no. Anzi, il documentario si sofferma sui benefici del non mangiare pesce, spesso contaminato da agenti inquinanti.
Critiche
Sono giunte critiche da tutti i fronti. Prime fra tutte, quelle provenienti dagli enti attaccati all’interno del documentario.
Oceana scrive che «astenersi dal consumare pesce non è una scelta realistica per le centinaia di milioni di persone nel mondo che dipendono dalla pesca costiera».
Il Marine Stewardship Council ricorda che «la pesca sostenibile esiste e aiuta a proteggere gli oceani», (volendo così smentire la tesi principale del docufilm) e che non possono esimersi dall’osservare come «la rinuncia al consumo di pesce sia una scelta personale che non tutti sono disposti a compiere. Il pesce rappresenta il 20% dell’assunzione media pro capite di proteine animali (FAO, SOFIA 2020) per più di 3,3 miliardi di persone a livello globale, mentre milioni di persone nel mondo basano la propria sussistenza sulla pesca».
Critiche sono arrivate anche dall’Earth Island che riporta le parole di David Phillips, direttore dell’International Marine Mammal Project: «Pur trattando argomenti critici, Seaspiracy purtroppo rende un disservizio a un certo numero di organizzazioni che stanno svolgendo un lavoro fondamentale per proteggere gli oceani e la vita marina».
Il National Fisheries Institute ha definito il documentario 90 minuti di propaganda vegana.
Numerose sono poi le critiche dalle principali testate.
Sul New Yourk Times si legge: “lo stile retorico del film sembra spesso un’imitazione a buon mercato del giornalismo investigativo”.
Il The Guardian riporta: “Seaspiracy: documentario Netflix accusato di false dichiarazioni da parte dei partecipanti“.
Su Il Post troviamo: “Ci sono molti modi per parlare di ecologismo, dipende chi lo fa e a chi si rivolge: però così no, ecco, proprio no”
E la lista potrebbe procedere così ancora a lungo.
Alla fine, ma non per importanza, non sono mancati i commenti da parte da scienziati e studiosi del mondo marino e affini. Le critiche riguardano l’inesattezza dei dati: Ali racconta che gli oceani saranno vuoti nel 2048 se continueremo con una pesca intensiva di questo tipo. Il dato proviene da una ricerca del 2006, ritrattata dal suo autore già nel 2009.
Inoltre, la pesca accessoria o collaterale sembrerebbe non essere il 40% ma il 10% del totale, secondo Nazioni Unite e Fao. Un solo studio ha parlato di 40 per cento, forzando le unità di misura, mescolando specie in via di estinzione e spreco alimentare.
Sono arrivate anche alcune critiche riguardo i personaggi intervistati, la gran parte attivisti. L’appunto riguarda la mancanza di persone che studiano gli oceani in maniera scientifica.
Inoltre, una dieta che permetta di poter non mangiare pesce non è inclusiva. WWF stima che siano 3 miliardi le persone che vivono di pesca. Un tipo di pesca che probabilmente è più “sostenibile” di quella commerciale. Un ulteriore critica riguardo il fatto che il pesce che mangiamo sia inquinato è, infine, una generalizzazione.
E poi il documentario è stato accusato anche di favorire un sentimento “antiasiatico“, in quanto andrebbe ad analizzare molti tipi di pesca non sostenibile, per violazione di diritti umani, principalmente nelle zone asiatiche, portando uno spettatore non informato a pensare che il problema riguardi unicamente queste zone del pianeta, senza minimamente accennare all’impatto che ha la cultura asiatica su questo tipo di pratiche.
E dunque?
È indubbio che 90 minuti non siano sufficienti per esaurire in maniera adeguata forse nemmeno una delle tematiche trattate da Seaspiracy.
Bisogna però ammettere che il documentario è molto piacevole da vedere, con un ritmo molto coinvolgente. La narrazione è accompagnata da immagini e grafiche molto interessanti.
Seaspiracy porta all’attenzione tematiche che non vengono messe in prima pagina quando si parla di cambiamento climatico o crisi degli ecosistemi. Discuterne fa bene, anche attraverso critiche, perché questo può portare, in alcuni casi, ad approfondimenti personali. Sono proprio questi approfondimenti che possono lasciare allo spettatore una maggiore consapevolezza di ciò che acquista, che porta a tavola e mangia. Tutto ciò perché, al di là del prodotto Netflix in sé, stiamo parlando di problematiche gravi e urgenti, come l’allevamento intensivo, i diritti umani legati al mondo della pesca, ecc. …
In definitiva, Seaspiracy è un prodotto che sa tenere lo spettatore con il fiato sospeso, per lasciargli alla fine un sentimento di necessità d’azione individuale immediata.
Siamo a un punto della storia in cui dovremo fare una scelta, spiega il capitano Alex Cornelissen, CEO di Sea Shepherd Global, che ha co-prodotto il documentario, «Smettiamo di sostenere l’industria distruttiva e insostenibile che sta distruggendo il nostro oceano o continuiamo sulla strada attuale e troviamo il nostro oceano vuoto nel corso della nostra vita? Fermare la guerra contro l’oceano è una questione di sopravvivenza. È una lotta che non possiamo permetterci di perdere».
Il pretesto per aprire il dibattito, dunque, è servito.
We just passed 400,000 signatures on our petition to protect 30% of the ocean by 2030!
All your support has helped get these important issues into the mainstream!
We’re so close to half a MILLION now. Please keep supporting and spreading the word.https://t.co/y3MqMM2XK3 pic.twitter.com/QSzcWUpLK8
— seaspiracy (@seaspiracy) April 19, 2021