27 Nov 2016

Simoni, vi racconto l’Italia che ha ancora voglia di cambiare. Senza urlare e con la poesia

Rivoluzionario ma senza gridare. Poetico ma anche scomodo e diretto. “Noi siamo la scelta” è un invito ai giovani a non omologarsi al mercato ma a farsi ancora sorprendere e interrogare dall’arte. «Non veniamo al mondo per produrre PIL ma per creare e imparare. È compito di noi cantautori suonare i campanelli di allarme»

31 anni, romagnolo con un passato da cuoco ed un amico bassotto di nome Renoir. Cinque album alle spalle e una passione innata per la parola prima scritta e poi cantata. Paolo Simoni non ama le etichette giornalistiche ma i suoi punti di riferimento sono stati da sempre Guccini, Gaber, De Andrè e Dalla (con cui ha duettato pochi giorni prima che morisse). L’ultimo lavoro discografico, “Noi siamo la scelta”, lo ha dedicato alla sua generazione, quella dei trentenni arresi allo status quo dell’Italia. In un dialogo, schietto e senza filtri, chiede ai giovani di non arrendersi e di aiutarlo a lasciare un’impronta in questo mondo. Pura utopia? Eppure quando gli chiedo perché ha smesso di fare il cuoco per dedicarsi alla musica, mi risponde in modo chiaro: «stavo bene e percepivo un buono stipendio, ma c’era un piccolo particolare che mi sfuggiva. Ero infelice!».

Hai descritto il tuo album come una “rivoluzione poetica”. Cosa vuoi dire ai tuoi coetanei trentenni?
«L’intero disco l’ho dedicato a quella generazione (la mia) che vuole tornare ad avere voce. Chiedo ai giovani di non accontentarsi e di non credere a nulla di quello che ci viene detto. Mi piace utilizzare una metafora di Noam Chomsky: se tu metti una rana in una pentola di acqua bollente questa si cuoce e muore subito. Se invece tu metti la rana nell’acqua tiepida e poi pian piano aggiungi dell’acqua più calda la rana si abitua, fino a quando non si cuoce senza neanche accorgersene. Questo è quello sta succedendo alla mia e alle generazioni future. Ci stiamo abituando a tutto, alle notizie che ci propinano, ai modelli che ci vendono».

Pensi che ascoltando una canzone qualcosa possa cambiare?
«La musica ha sempre scosso e mosso le coscienze. “Imagine” di John Lennon, ad esempio, non è una canzone che ha fermato le guerre ma ha creato un’immagine collettiva nel mondo ispirata alla pace. O ancora Guccini che ripeteva sempre “con le canzoni non si fanno rivoluzioni però si può far poesia”. La forza di una canzone è quella di unire le persone accomunate da uno stesso problema e offrirgli una soluzione. In questo periodo storico, invece, la musica unisce solo dal punto di vista commerciale e noi giovani ci facciamo fottere da questo meccanismo che è sempre più deleterio. Questo ultimo mio lavoro vuole essere un campanello di allarme che dice ai giovani di tenersi desti».

Sei nato nella culla del cantautorato italiano ma per te chi è il cantautore?
«Innanzitutto è un artista. E riesce a parlarci in maniera intima perché è la stessa arte a far parte di noi. Noi non veniamo al mondo per produrre del PIL o per portare a casa uno stipendio ma per creare e imparare delle cose. Se questa missione non la compie l’arte e la musica, chi lo fa? Siamo circondati da un materialismo cronico che ci fa pensare soltanto ai numeri e poco all’anima. Ecco perché il cantautore è quell’artista che può tenere accesa questa fiamma, che può dar voce a quelle emozioni che magari sono sedimentate da tempo dentro di noi: lui le ritrova e ce le restituisce in un modo che apprezziamo».

Come si può conciliare questo tipo di scrittura con il mercato radiofonico che invece richiede altri tipi di pezzi?
«Nel momento in cui l’artista ha qualcosa da comunicare deve trovare anche il modo di raccontarlo al pubblico con le giuste modalità. Suonare o arrangiare “Io non mi privo” in un certo modo probabilmente non l’avrebbe portata in radio. In un momento storico come questo non possiamo fare i De André con le chitarre, sarebbe anacronistico. A me piacerebbe tornare a quel tipo di musica  ma non interessa a nessuno. È come se ti trovassi imbottigliato dentro il traffico di Roma con una macchina degli anni trenta. Oggi se da cantautore vuoi comunicare qualcosa lo devi fare con una certa maturità».

In uno dei tuoi testi hai scritto apertamente di odiare Steve Jobs. Perché?
«Penso che i new media e in particolare i social stiano sempre più diventando una macchina dell’odio. Ogni volta che ognuno di noi posta qualcosa esce fuori una torre di babele dell’insulto, in cui ognuno deve scagliarsi contro l’altro, a prescindere dal contenuto. Siamo una società di infelici, che non vive la propria esistenza, ognuno rinchiuso dentro la propria gabbia (con il proprio smartphone) e pensa che con un commento il mondo lo ascolti. Questa è la più grande truffa del nostro tempo. È inutile fare le rivoluzioni con la tastiera. Anche (ma non solo) con questa frase ho voluto dare un segnale chiaro di reazione».

Paolo Simoni, quindi, appartiene ad una specie rara?
«Affatto. In questo momento l’Italia è piena di cantautori giovani ma i riflettori sono puntati su altro. Scegliere di mettere a frutto questi doni, oggi, è difficile perché in questo ambiente non gira molto denaro ed un artista si trova ad affrontare molte spese. Per questo non mi spavento a definire “eroi” i cantautori di oggi. Altri, invece, preferiscono appiattirsi ed omologarsi quasi con la paura di disturbare. Ma se il cantautore non è scomodo, rivoluzionario e contro-corrente, come pensa di poter smuovere le coscienze?».

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