Sinodo sull’Amazzonia, una sfida anche per i giornalisti

Il Sinodo fa riflettere su come l'intero mondo dell’informazione, nonché l’opinione pubblica, sta trattando poco e male questo tema.

L’appello di Papa Francesco nel terzo anniversario dell’Enciclica Laudato si’, sulla cura della Casa Comune, celebrato a Roma nel luglio scorso, con la conferenza internazionale “Saving our common home and the future of life on earth”, diceva:

«È triste vedere le terre dei popoli indigeni espropriate e le loro culture calpestate da un atteggiamento predatorio, da nuove forme di colonialismo, alimentate dalla cultura dello spreco e dal consumismo (cfr SINODO DEI VESCOVI, Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale, 8 giugno 2018)».

E con ancora più forza ribadisce l’impegno di tutti ad ascoltare i diretti interessati:

«Per loro, infatti, la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro valori» (Laudato si’ , 146). Quanto possiamo imparare da loro! Le vite dei popoli indigeni «sono una memoria vivente della missione che Dio ha affidato a tutti noi: la protezione della nostra casa comune» (Discorso nell’incontro con popoli indigeni, Puerto Maldonado, 19 gennaio 2018). Cari fratelli e sorelle, le sfide abbondano».

E mentre le popolazioni indigene dell’America latina attendono con grande speranza l’assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per tutta la regione Panamazzonica, che è stata programmata nell’ottobre del 2019 a Roma, emerge una prima domanda che ci permette di riflettere su questo avvenimento: possiamo fare una autocritica sulla produzione dell’informazione? Possiamo fare lo stesso per quanto riguarda la funzione culturale, educativa e sociale delle notizie sull’argomento di altri paesi, qui in Italia?

Per questo è importante incontrare Roberta Gisotti caporedattore a Radio Vaticana, autrice testi e consulente Rai e docente di Economia dei media alla Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale presso l’Ups, che abbiamo intervistato.

Fra un anno ci sarà a Roma il Sinodo dei vescovi sulla regione amazzonica e ci sembra che nella Chiesa, ma anche in Italia e in Europa in generale, ci siano degli elementi che ancora non si conoscono, dei quali ancora non si parla e non si sia approfondito, nei media. Cosa ne pensa?

Questo è veramente un aspetto che lascia stupefatti, tanto più che oggi parliamo, ci riempiamo la bocca di vivere in una cultura globalizzata. Che un evento così rilevante come il Sinodo sull’Amazzonia sia trascurato dal circuito dei media, non so negli altri paesi, ma sicuramente in Italia, fino ad oggi è stato trascurato, ci deve far riflettere e domandarci perché. La risposta più comune che noi possiamo sentire tra chi, appunto, lavora in televisione, alla radio, nei giornali, nel mondo della informazione sarà che questo argomento, in realtà, interessa poco al pubblico.

E questa è una grande mistificazione, perché il pubblico aspetta di essere interessato da una informazione che si apre al mondo, e sa come parlare ai cittadini, sa come stimolarli, sa come interessarli, sa come suscitare il loro spirito critico. In particolare, in televisione che a tutt’oggi è la regina dei media, abbiamo sempre più una comunicazione che cannibalizza se stessa, e ripercorre il già detto, il già fatto, ciò che fa più ascolto. Per cui abbiamo e viviamo un periodo storico di penuria di creatività, di penuria di interessi, di penuria di ricerca.

Riguardo all’Amazzonia non possiamo certo dire che un argomento che presenta degli aspetti così ampi di interesse per tutto il pubblico che sono da quello più, diciamo, che può essere più avvertito di tipo ambientale ecologico, ma anche di equilibri geopolitici per tutta l’America Latina, è un’occasione veramente mancata dell’informazione.

Infatti, sembra che l’Amazzonia non venga valorizzata per il suo contributo che elargisce non solo del punto di vista climatico, della biodiversità, ma anche per la riflessione sull’interculturalità. Quindi, secondo Lei questi elementi mancano nell’approccio del lavoro giornalistico? E se sì, quale lavoro di ricerca dell’informazione dovrebbe essere fatto, per una nuova creatività che vada ad incuriosire su quest’argomento?

In realtà l’informazione verso l’estero riguarda essenzialmente pochi elementi, cioè, le grandi calamità e catastrofi. Gli eventi di conflitti, di guerra e la cronaca nera. Quindi è un guardare a un’informazione che è prettamente negativa. E perché si guarda questa informazione che è prettamente negativa? Perché è molto facile fare ascolti con questo tipo d’informazione. Perché un’informazione che punta all’emotività del pubblico, cioè punta a trattenere il pubblico davanti al video anche solo per pochi secondi, pochi minuti, per ottenere quell’indice di ascolto che poi promuove quel programma. Questo è veramente un aspetto poco conosciuto e che è alla fonte di questa informazione che non svolge il proprio ruolo di informare e formare l’opinione pubblica dando gli elementi della vita sociale, culturale, politica, religiosa degli altri paesi e degli altri popoli.

Insomma, come si dovrebbe preparare un giornalista, non solo dentro alla Chiesa, ma anche in tutta Europa, rispetto al prossimo Sinodo sull’Amazzonia del 2019?

L’uomo che fa comunicazione deve anzitutto essere lui attento e curioso. Perché se non s’interessa lui, se non si incuriosisce lui, se non fa ricerca, non potrà trasmettere questa conoscenza, questa curiosità, questo desiderio di fare ricerca per capire; non li potrà trasmettere al suo pubblico. Quindi, il primo appello che bisognerebbe fare, è quello di rivolgersi ai media, e alle persone che operano nei media, di guardare a questo argomento, e di assumersi la responsabilità di parlarne al mondo perché è un tema di attualità che si riflette direttamente sulla vita delle persone e sulla vita dei popoli.

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