Lunedì
23 novembre 2015 l’associazione Ibuka
Italia è stata ricevuta dalla Presidente della Camera Laura
Boldrini,
per
riconoscere la sua grande opera di sostegno alle vittime del
genocidio
in Rwanda
(aprile – luglio 1994). L’associazione è stata creata dai
sopravvissuti per poter dare conforto a coloro che, in pochi mesi,
avevano perso tutto, anche la dignità. Ibuka si è proposta come
punto di riferimento per donne e uomini soli, cercando, riuscendoci,
di evitare la vendetta e ulteriore spargimento di sangue.
Durante il
genocidio i cadaveri venivano gettati in fosse comuni e l’associazione ha sostenuto la ricerca dei corpi per restituirli ai
familiari e per dare loro una degna sepoltura. Un’altra
battaglia che Ibuka sostiene in tutto il mondo è quella di scovare e
denunciare coloro i quali negano il genocidio rwandese. Infatti,
subito dopo il genocidio, molti Hutu,
per paura di essere catturati dai Tutsi
e ovviamente essere uccisi, scapparono e si rifugiarono in Europa, in
particolare in Italia, Francia e Belgio e da qualche tempo praticano
il negazionismo,
cercando di capovolgere la realtà dei terribili accaduti e poter
ingannare l’opinione pubblica.
Per
questa occasione ho incontrato una ragazza rwandese, attivista di
Ibuka, da molti anni in Italia, studentessa universitaria, che ha
vissuto sulla sua pelle tutto il dramma
e
la schizofrenia
della guerra
etnica
tra Hutu e Tutsi.
Il Rwanda è uno stato dell’Africa orientale, compreso tra
l’Uganda, il Burundi, la Tanzania e la Repubblica Democratica del
Congo. Originariamente Hutu e Tutsi vivevano pacificamente e queste non erano altro che una denominazione che descriveva lo status delle
persone: gli Hutu erano prevalentemente agricoltori, di statura più bassa e robusta,
mentre i Tutsi si occupavano dell’allevamento ed erano più alti e
snelli. Durante il XVIII secolo, il Rwanda godeva di un regime
centralistico caratterizzato da una società suddivisa
gerarchicamente.
Nel
1900 iniziarono a giungere nel territorio centro-africano i
colonialisti europei, in particolare belgi, francesi e missionari
cattolici i quali, portatori delle nascenti ideologie razziali,
attribuirono ai termini “Hutu” e “Tutsi” significati
differenti; imposero un governo Tutsi, per la loro fisicità, a loro
dire, più europea, facendoli coincidere con la nuova élite
governativa, mentre da quel momento in poi con la parola “Hutu”
si sarebbe intesa la popolazione comune.
Secoli
di storia e gerarchie sociali furono cancellati in un attimo
e negli anni il rancore e le controversie politiche-economiche
sfociarono nell’odio. I Tutsi divennero il nemico da combattere, da
eliminare, senza alcuna pietà neanche per donne e bambini.
Cyizere
(in rwandese significa “speranza”, così la chiamerò per motivi
di sicurezza), oggi ha 26 anni, ha occhi grandi e pieni di vita che
non passano inosservati, ma soprattutto ricchi di speranza, occhi che
portano e porteranno per sempre le urla e le immagini terribili di
quelle notti.
Alla
mia prima domanda, “sei
Hutu o Tutsi?”, Cyizere
mi risponde in un modo che mi lascia subito di stucco:
“Sono
rwandese, non ha importanza se hutu o tutsi, non fa differenza; è
come se ti chiedessi se appartieni all’impero romano o a quello
papale. Sono ormai delle classificazioni arcaiche, che non hanno più
senso, continuare a sentirsi Hutu o Tutsi alimenta odio e razzismo
nascosto”.
Da
chi è nascosto questo odio?
“Da
un lato esistono ancora estremisti Hutu che vorrebbero generare nuove
tensioni per riacquisire il potere, dall’altro abbiamo una parte
dei Tutsi che si è avvicinata al movimento dei “Salvati”,si piangono
addosso, nel giorno della memoria ricordano le vittime e le atrocità,
fingono di aver perdonato ma non hanno alcuna intenzione di reagire
, anzi usano il genocidio come scudo per non andare avanti. Altri
Tutsi e Hutu, si sono formati, sia studiando sia lavorando su sé
stessi, per collaborare insieme e ricostruire il Paese. Nella realtà
secondo me c’è ancora tanta strada da percorrere; infatti quando
in famiglia, raramente, si parla del genocidio, ascolto sempre parole dure e
commenti razzisti. Quando chiedo
spiegazioni, oppure le motivazioni per tali insulti, mi viene detto
di stare zitta o di andare a letto”.
Sicuramente
non si può dimenticare, ma potrai perdonare queste brutalità?
“Onestamente
non posso perdonare azioni che ancora oggi, a ventisei anni, non ho
capito. Nessuno mi vuole spiegare, l’idea che mi sono costruita
viene da mie documentazioni, dalla mia sete di verità e libertà.
Libertà da preconcetti, pregiudizi, appartenenze etniche. Vorrei
arrivare un giorno ed essere completamente libera da una cultura in cui il rispetto per chi
è più anziano impedisce ai giovani di fare domande o opporsi al suo
pensiero. L’anziano non può essere contraddetto, ciò che dice è
legge.
Dopo anni di notti insonni, ho imparato a lavorare su me
stessa e a “filosofeggiare” sulla mia condizione. Non posso
convincere a perdonare donne che sono state picchiate, violentate,
hanno visto uccidere i propri figli o il marito, ma consiglio di non
rimanere chiusi in se stessi e di uscire fuori, affrontare la vita,
iniziare a vivere veramente”.
A
distanza di venti anni dal genocidio quali sono i tuoi obbiettivi?
“Io
credo che, come dice Papa Francesco, ognuno
di noi ha una missione.
La mia seconda vita mi è stata donata da Qualcuno. Non dimenticherò
mai una notte in cui gli Hutu presero me, mia sorella e tante altre
bambine, ci fecero sdraiare a pancia in giù e iniziarono a
picchiarci; poiché mi credettero morta uccisero la bambina accanto a
me e mi lasciarono lì. Solo dopo un po’ sopraggiunse una suora di
un convento lì vicino e mi portò con lei. Sto vivendo una seconda
possibilità e quindi la mia missione, il mio sogno è tornare in
Rwanda e fare l’insegnante, perché so quanto fa male avere delle
domande e non avere nessuno che ti da risposte. Voglio diventare, per
le nuove generazioni rwandesi, un punto di riferimento, possibilità
che io non ho avuto”.
Quanto
è importante l’educazione al dialogo, per superare definitivamente
queste ostilità?
“Senza
dialogo e soprattutto senza una vera propensione alla comunicazione,
sia Tutsi che Hutu saranno responsabili di un altro genocidio. È
fondamentale ripartire dall’educazione dal basso, puntare ad una
rieducazione della società. Non dobbiamo delegare questo compito al
Governo attuale e accusarlo, bensì dobbiamo ammettere che la nostra
fragilità sociale e un eventuale colpo di Stato, genererebbe le basi
per un altro sterminio, e poi un altro ancora, senza fine.
La
nostra priorità deve essere la creazione di un Paese che realmente
vuole lasciarsi alle spalle anni di sangue, omicidi tra mogli e
mariti, razzismo e odio”.
Oggi
in Rwanda il governo è sotto la guida del Presidente Paul
Kagame,
cosa ti aspetti per il tuo Paese?
“Senza
dubbio sotto la guida di Paul Kagame, anche se tendenzialmente dittatoriale, il Paese sta vivendo
un momento di pace ed è lo Stato centro africano che gode di una
ripresa economica sostenuta. Mi auguro che nel tempo il Governo si
apra ad una maggiore democratizzazione e proponga una politica del
dialogo e di una educazione sociale finalizzata alla pace. Una pace
tra etnie che per secoli hanno vissuto serenamente e che, a causa del
potere e della voglia di comandare, hanno generato barbarie senza
precedenti.
Il
mio sogno è che il Rwanda venga ricordato come un Paese di giovani
amanti della cultura e perseguitori di valori come la vita e la
libertà; quel profumo di libertà che da piccola, durante le lunghe
notti passate nascosta negli scantinati, mi regalava solo un libro.
Posso
dire oggi, a ventisei anni, che l’amore per la lettura mi ha
portato in Europa e mi ha salvato la vita”.