10 Set 2024

“Stranger Eyes”: la nuova riflessione sull’incubo della sorveglianza

Siew Hua Yeo mette in scena un thriller in cui la scomparsa di una bambina rivela l’invasione della sorveglianza tecnologica. Con toni orwelliani, il film sfida la percezione di intimità e il confine tra osservatore e osservato

Siew Hua Yeo presenta a Venezia un film la cui vicenda si svolge a Singapore. Stranger Eyes è un thriller che ha come protagonisti una coppia di giovani sposi a cui viene rapita la figlia di pochi mesi. Insieme alla nonna paterna, i due genitori si rivolgono alla polizia, ma ben presto si accorgono che le ricerche vanno a vuoto a causa della mancanza di indizi. Qualche tempo dopo i due protagonisti ricevono a casa dei DVD inviati da un anonimo contenenti dei filmati che li riprendono insieme alla loro bambina. Uno stalker li sorveglia, e per di più i suoi video rischiano di compromettere il rapporto della coppia portando alla luce i segreti di ciascuno.

Sconfortato, Darren (Wu Chien-Ho), il padre della bambina scomparsa, decide di cercare il presunto stalker, sospettando che possa essere il vicino Goh (Lee Kang-Sheng). Stranger Eyes inizialmente sembra esplorare la dissoluzione delle barriere tra sfera privata e pubblica, causata dall’onnipresenza della tecnologia nelle grandi città. Tuttavia, quando il focus si sposta sul voyeur, l’atto di osservare assume significati nuovi, aprendo la strada a una riflessione complessa sulla natura della simulazione

Il filo conduttore della narrazione, che non segue un ordine cronologico lineare, è il tema della sorveglianza e riprende in parte ciò che Orwell aveva già anticipato in 1984: un mondo in cui ogni cosa è controllata e le autorità esercitano un potere assoluto sull’individuo, specialmente in contesti come quello di una città-stato come Singapore. L’attenzione si sposta quindi sull’atto di osservare gli altri e di vedersi attraverso gli occhi altrui, come ha spiegato il regista: “Si tratta di come vediamo gli altri, come loro ci osservano e di come percepiamo noi stessi nel processo”. Il film, quindi, si articola in un complesso “rituale quotidiano” di scambio di punti di vista tra osservatore e osservato, in cui ogni protagonista riesce a vedersi e immedesimarsi nell’altro“.

È un’opera che si presta a più letture, a più “visioni”, ma soprattutto è una chiara ed evidente denuncia a un Paese in cui la sorveglianza è diventata l’effettivo mezzo di controllo a ogni livello, dove la linea tra vedere ed essere osservati diventa sempre più sottile, o quasi inesistente.

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