01 Apr 2021

Tassare le emissioni: confronto serrato tra Usa e Ue

Le strategie per coordinarsi sulla lotta al cambiamento climatico sono un dossier prioritario sul tavolo delle nazioni. Ripensare un nuovo meccanismo di tassazione sarà dunque una sfida importante e utile a misurare le relazioni tra USA, Unione Europea e non solo

Nei primi giorni di marzo il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione che spinge e sostiene l’adozione di un meccanismo di Carbon Border Adjustment, ovvero un sistema di tassazione sulle importazioni di beni da Paesi che hanno standard di emissioni di carbonio meno stringenti o legalmente vincolanti. La scelta di ragionare su questo sistema è parte della strategia del Green Deal europeo, che si muove in piena unione con gli obiettivi dell’Agenda 2030.

Scenari USA – Unione Europea

Dopo l’approvazione della risoluzione Bruno Le Maire, Ministro delle Finanze francese, si è mostrato aperto al dialogo per costruire un accordo in tempi rapidi sulla questione, che secondo la tabella di marcia UE dovrebbe iniziare ad agire, in alcuni settori chiave, già dal 2023.

Il meccanismo del Carbon Border Adjustment dimostra mostra anche come la lotta al cambiamento climatico, connessa alla messa in campo di strumenti tecnologici, economici e politici, non può essere descritta come neutrale, ma coinvolge direttamente le potenze globali nella messa a punto delle politiche.

Se si parla di potenza globale non può quindi che venir fuori il ruolo degli Stati Uniti: il Presidente Biden ha spinto spesso l’acceleratore sul tema. Nel Climate Plan presentato in campagna elettorale si parlava della volontà di imporre un «carbon adjustment fees or quotas on carbon-intensive goods from countries that are failing to meet their climate and environmental obligation».

Gli Usa però, dopo il rientro nell’Accordo di Parigi, hanno ancora bisogno di un momento di riassestamento sulle politiche climatiche. Sul Financial Times John Kerry, delegato per il clima dell’amministrazione Biden, non ha mancato di sottolineare che una tassa del genere sia piuttosto da vedere come un’ultima spiaggia.

Allo stesso tempo però gli USA e le istituzioni europee, mosse dal volano del Green Deal, si sono accordate su un’agenda comune da portare avanti nei prossimi anni, il tutto è stato suggellato dal passaggio in Europa di Kerry nelle scorse settimane. Ad oggi gli USA fanno fatica anche internamente nell’approvazione di politiche sulle emissioni: solo, infatti, la California o iniziative come la Regional Greenhouse Gas Initiative, che comprende 11 stati, riescono a tenere sotto controllo le politiche sulle emissioni con dei regolamenti stringenti.

Un’analisi del think tank Bruegel ha spiegato il funzionamento dei due sistemi statali, ma soprattutto si è concentrata sul mostrare come uno strumento del genere, proposto su una scala nazionale, potrebbe essere garantito da un sostegno bipartisan al Congresso dato che: «has typically been viewed in the US as a tool for protecting domestic industry from foreign competition once a carbon price has been implemented».

Per i paesi dell’Unione Europea la questione è sensibilmente diversa, l’impegno a raggiungere una neutralità climatica entro il 2050 passa anche attraverso un sistema di tassazione che va a minare il gap verso nazioni che non rispettano determinate scelte sulle emissioni. La scelta è dunque di natura strategica, l’obiettivo è evitare quello che viene definito carbon leakage che l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) definisce come:

Phenomena whereby the reduction in emissions (relative to a baseline) in a jurisdiction/sector associated with the implementation of mitigation policy is offset to some degree by an increase outside the jurisdiction/sector through induced changes in consumption, production, prices, land use and/or trade across the jurisdictions/sectors.

Cosa manca per un sistema di Carbon Border Adjustment?

Il vicepresidente della Commissione Europea, Frans Timmermans, aveva definito ad inizio anno una tassa sul carbonio alle frontiere come una scelta di sopravvivenza per le industrie nel continente. Prima però di applicare la svolta, già indicata in documenti, piani strategici e risoluzioni, sarà fondamentale adeguarsi di un apparato che permetta controlli e verifiche sull’applicazione e il calcolo della CBA.

Un’analisi sulle difficoltà e le macchinosità amministrative che si celano dietro questa scelta l’ha effettuata Jan Cernicky del Konrad Adenauer Stiftung in un report uscito per ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale).

Per rendere più efficaci le strategie un’idea interessante è quella di formare tra USA, Cina e Unione Europea un club del clima. L’ipotesi è stata portata avanti dal premio Nobel William Nordhaus e rilanciata da un articolo su Nature, che ha tracciato una strada basandosi su quattro pilastri: rafforzare gli obiettivi nazionali sul clima e sulle emissioni; concordare una serie di strumenti per comparare le diverse politiche nazionali; promuovere una fiscalità trasparente e ragionare su standard comuni per misurare l’impronta di un bene in termini di emissioni.

Le strade tracciate da UE, Usa e Cina, che vantano oltre il 60% del PIL globale, devono essere comuni ed intersecate su un tema che nasconde l’insidia di essere trasformato in un’ennesima guerra commerciale.

Va chiarito che, dal punto di vista della letteratura scientifica, il border carbon adjustments è stato analizzato e spesso i ricercatori non sono stati sempre concordi sui benefici potenziali del sistema; c’è anche da dire che i reali campi di applicazione di politiche del genere per ora sono stati pochi e quindi le misurazioni e i dati molto difficili da raccogliere.

Resta la sensazione che i paesi ad alto reddito e impatto, in termini di emissioni, debbano prendersi le loro responsabilità. Chiamare infatti le potenze ad un esercizio di responsabilità è sempre una scelta giusta ed eticamente condivisibile, ma non sempre la risposta attesa si tramuta in un’azione politica sperata.

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