Una
donna sconosciuta, che ci dà le spalle, dice al cellulare: «Ciao… bene. E te?». Quel te
è una stilettata al cuore che, se mai la donna si girasse, le farebbe perdere
all’istante mille punti, foss’anche Miss Universo. Se una casca sul tu, figurarsi sui congiuntivi. Ti puoi
aspettare le peggiori azioni da lei. Come da chi «riesce a dire con venti parole ciò che può essere detto in dieci»:
lo sosteneva Giosue Carducci, un Nobel della Letteratura.
Giusto per citare pure un
contemporaneo, viene in mente l’invettiva di Nanni Moretti nel film Palombella rossa: «Chi parla male,
pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono
importanti!».
Poi, accanto alla donna, affisso al
muro, vediamo un manifesto firmato da un fantomatico Movimento Studentesco
Nazionale. Che mostra una bomba sul punto di esplodere e la scritta «Accendi la tua voglia di rivolta. Ora».
Entriamo in crisi e ci domandiamo che senso abbia prendersela con gli errori
grammaticali, con gli accenti sbagliati, con l’eccesso di parole, con l’abuso
di parole straniere e quant’altro, quando ne circolano altre – ben più gravi –
che incitano alla violenza. Da cui nessuno prende le distanze. E che nessuno
sanziona.
Persino per l’acqua, che è un bene
vitale, si fa pagare un prezzo. Se si facesse altrettanto con chi usa parole
cariche di odio, si otterrebbe quanto meno il risultato di far pensare a ciò
che si dice.
Un prezzo, però, non in denaro, per non dare un
ulteriore privilegio ai ricchi. E allora, cos’altro? Si potrebbe esigere di
perdonare qualcuno. Per dare il
buon esempio, noi incominciamo a farlo con la donna al cellulare. Anche per
rendere omaggio ai suoi capelli: la bellezza che si svela, seppure limitata a
un dettaglio, ha il potere di stendere un velo pietoso su un te.