Ci
piacerebbe scrivere sottovoce, se si potesse, per dare un tono riservato alle
nostre parole. In linea con la persona di cui vogliamo parlare, senza svelarne
il nome (sennò che messaggio anonimo sarebbe?). Per comodità la chiameremo
Mario. Poiché, da quasi un anno, la vediamo ogni giorno, ci sentiamo di
affermare che è seria e competente, ma con due difetti da limare.
Il
primo è la continua richiesta di soldi: non per sé, d’accordo, e ogni volta
giustificata, però decisamente fuori misura. Il secondo è il linguaggio privo
di slanci. Che sembra sobrio (e non può essere,
anche perché sobrio, ha fatto notare
Stefano Bartezzaghi, è anagramma di brioso),
in realtà è smodato. Basti vedere l’uso dell’avverbio non. Se, con deferenza, gli domandassimo «Pensa d’essere un tipo positivo?», di certo risponderebbe «Preferirei non-negativo». Perché Mario,
invece di accontentare, cerca di non scontentare; anziché piacere, punta a non
dispiacere. Al posto di Obama («Yes we
can»), lui avrebbe detto «Sì, non è
impossibile». Se è d’accordo, dice «Non
sono contrario». Se gradisce qualcosa, «Non
mi dispiace» (o «Non guasta»). Se
non gradisce, «Non è fondamentale» (o «Non mi fa impazzire»).
Romanzo
preferito? Ogni passione spenta.
Massima trasgressione? Il colore blu scuro del loden. Luogo di nascita? Varese.
Avremmo detto Torino, data la propensione piemontese a infilare ogni due parole
un «Non esageriamo», per mantenere in
ogni circostanza il senso delle proporzioni. Col risultato, magro, di non accendersi
mai, di sgonfiare ogni passione e di non trasmettere speranza.
È
vero che c’è poco da stare allegri. Tuttavia non ci dispiacerebbe (ormai stiamo
parlando come lui!) fargli capire che un conto è non cedere ai facili
entusiasmi, un altro è dare l’idea di non averne. Mario deve fare qualcosa se
il Paese è triste, anche perché sarà ben più triste vedere il Paese affidarsi a
un comico.