«Guardare sempre il bicchiere mezzo pieno». È così che vede la vita Mimmo Chianura, fotogiornalista da oltre quarant’anni. E in fondo, come dargli torto? Si sa che la fotografia è una questione di sguardi e di punti di vista, dipende da come gli occhi di chi scatta si posano sulla realtà, da come la immaginano, la osservano, la immortalano e poi la modellano. Per questo motivo, “Storie di un fotoreporter. Conversazione con Mimmo Chianura”, l’evento tenutosi nella Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Pontificia Salesiana di Roma, è stato uno di quei momenti accademici che lasciano tanti spunti di riflessione. Perché scegliere oggi il mestiere di fotoreporter? Quale ruolo assume, una figura di questo tipo, nella società attuale e quali scelte gli permettono di svolgere la professione senza dimenticarsi dell’etica e della deontologia?
Tutti i presidenti del Consiglio e della Repubblica, negli ultimi quarant’anni, sono passati sotto la lente d’osservazione di Chianura, così come tanti personaggi pubblici internazionali: da Bush a Gorbaciov, passando per Lady Diana e l’ayatollah Komeinhi sono per citarne alcuni. Una passione, quella per le foto, nata quasi per caso. «Per la voglia di scoprire quello che qualcuno voleva nascondermi» ha raccontato Mimmo Chianura, ripercorrendo la sua infanzia. Chi conosce Taranto lo sa bene: dal Ponte Girevole si vedono i sottomarini, ma ad un bambino curioso non basta sapere che ci sono: «Io volevo vederli e toccarli. L’unico modo per portarmeli a casa era fotografarli». Nato freelance, «quando ancora da solo mi preparavo il servizio in camera oscura, con il fissaggio e lo sviluppo e poi andavo a bussare alle porte delle redazioni in cerca di qualcuno che le volesse» Chianura entra a far parte dell’Agf, Agenzia giornalistica fotografica, nel 1983. Lì comincia un’altra storia. Meno autonoma, ma più professionalizzante: «Muoversi da solo mi permetteva di vivere il mio lavoro rincorrendo il tempo – ha spiegato il fotografo – sempre sul filo, ma molto stimolante. Quando ci fu il terremoto dell’Irpinia nel 1980, ad esempio, ricordo di aver visto tremare il lampadario e di esser corso subito in macchina per raggiungere il luogo della scossa. Più avventura quindi, ma meno costanza». E in agenzia? «Capita di dover fare anche cose che non sono nelle tue corde. Ad esempio da un comizio politico passi al delfino spiaggiato a Torvajanica. Ma il fotogiornalismo, quando diventa un lavoro, non è solo fare solo ciò che piace».
Nell’archivio digitale dell’Agf oltre 28 mila risultati portano il suo nome. Le più famose scorrono alle sue spalle, mentre con emozione Chianura racconta gli aneddoti di una vita. C’è anche spazio per un piccolo rimpianto: «non aver iniziato prima, forse avrei seguito il ’68 e invece mi sono perso il racconto di anni di grande fermento». Sono tanti i suoi scatti che hanno fatto il giro del mondo. La foto dell’abbraccio tra Benigni e Berlinguer ad esempio, ma anche quella della notte di Natale del 1999 che vede come protagonista Giovanni Paolo II in ginocchio, sofferente e aggrappato alla croce. Si apriva in quel momento l’Anno Santo e Chianura entra di diritto nella storia del fotogiornalismo internazionale: «C’erano più di 300 fotografi quella sera, solo uno ha avuto l’onore di entrare e fotografare il Papa da dentro, con la promessa di dare poi lo scatto a tutti i colleghi. Tirato a sorte, fui scelto io. Un’emozione indescrivibile. Amo tutte le mie foto, ma quella ha un sapore speciale».
Nell’incontro sono emerse tematiche da sempre care al fotogiornalismo, problemi che oggi la tecnologia pone sotto nuova luce. Qual è il segreto per fare una buona fotografia? Quando l’etica impedisce ad un fotografo di fare una determinata foto? Alla prima domanda Chianura risponde con sincerità, scavando nel cassetto dei ricordi: «La posizione del fotografo è fondamentale. Io ad esempio, quando ho iniziato, guardavo sempre dove si metteva Sabatini, il migliore di tutti. Non è solo fortuna, l’ho studiato per anni. Io la chiamo cultura della situazione». Esiste quindi l’opportunità giusta, ma anche quella da non cogliere. Lì finisce la professione e inizia la persona: «Se mi è mai capitato di non scattare una foto? Una volta Lady Diana andò a trovare i bambini malati di tumore al Bambin Gesù di Roma. Io non entrai. Sono convinto che ci siano foto che vadano fatte, la cui documentazione giornalistica è talmente importante da permettersi persino di urtare la sensibilità altrui. Altre volte si fa un passo indietro. C’è chi dice che certe fotografie vadano fatte a prescindere e che poi spetta all’editore se pubblicarle o meno. Ma dietro ogni macchina c’è un cervello che ragiona e che fa discernimento prima di premere il pulsante dello scatto. Sono convinto che un buon fotogiornalista è sempre una persona curiosa, appassionata e con una grande sensibilità».
All’inizio del 2000 il passaggio al digitale. Ecco come l’ha vissuta un fotogiornalista che si è trovato ad attraversale un passaggio epocale per la storia della comunicazione: «Le prime macchine automatiche neanche volevo comprarle, poi mi sono reso conto che il progresso non puoi arrestarlo e un professionista deve sapersi adattare. Il grande cambiamento è stato nella durata della vita di una foto: prima del digitale aveva un tempo di lavorazione di ore, anche di giorni. Oggi la fotografia, pochi minuti dopo averla scattata, è già online. Ma poche ore dopo è già vecchia». L’appello finale di Chianura è rivolto agli studenti: «Se amate la fotografia alimentate la cultura fotografica in questo Paese. Anche nelle redazioni c’è chi ancora non capisce che le foto non sono solo un corredo, ma comunicano da sé e quindi fanno informazione a servizio del pubblico. Per questo motivo il fotogiornalismo ha un grande valore sociale. Ci sono fotoreporter che lavorano sotto le bombe, non dimentichiamoci di loro».